La prima volta che ha condiviso con noi comuni mortali la sua playlist preferita, ci è sembrato un evento raro. E in effetti lo è stato. Un ponte diretto con la Casa Bianca, poter immaginare gli Obama che ascoltano Drake facendosi la doccia e Stevie Wonder di fronte a un bicchiere di vino rosso (quale tipo di vino, invece, abbiamo preferito non chiedercelo, per non spezzare l’empatia). Negli anni quell’appuntamento su Spotify è diventato una tradizione. Ogni estate ci aspettiamo la Summer Playlist di Barack – presidente in carica o ex, poco cambia – un po’ per diletto e un po’ perché, nel mix perfetto che propone di artisti emergenti, capisaldi della musica americana e pop culture, qualche chicca da scoprire o rispolverare c’è sempre. La verità, poi, è che la playlist di Obama io la seguirei pure se non fosse sua: ha gusto. Eccome, se ha gusto…
L’Obama cresciuta a pane e musica
Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, certo, ma dimmi anche che musica ascolti e ti dirò da dove provieni. Ecco, nella vita di Michelle (soprattutto) e di Barack (anche), la musica è stata molto più che un accompagnamento al margine. E si vede. Tanto nelle loro playlist quanto nell’atteggiamento pubblico che è stato il loro biglietto da visita fin dalla corsa alla presidenza. C’è questo libro di Michelle Obama, Becoming – ‘giusto’ un bestseller che ha stabilito il primo record a soli 15 giorni dalla pubblicazione, nel 2018, diventando poi il libro più venduto quell’anno negli Stati Uniti – che è letteralmente intriso di musica.
Barack ha la sua playlist, che conta, è vero. Ma a me piace vederla al contrario: Michelle non avrebbe mai perso la testa per un uomo senza condividere con lui la passione per la musica. Nella loro storia d’amore – forse l’american dream più bello della nostra epoca, e nel libro lei ne restituisce un ritratto vivo e potentissimo – tutto è scandito dalla musica. Perché sono gli occhi di Michelle Robinson a guardare la vita così.
Oltre i ruoli e la fama, dimenticando la politica e i compromessi di un’autobiografia romanzata, Becoming è, a maggior ragione, un romanzo di formazione. E l’aspetto più affascinante è proprio l’infanzia di Michelle, con le sue radici ben trapiantate nel South Side di Chicago. È lì che la famiglia si era trasferita già ai tempi della Grande migrazione, insieme a milioni di altri afroamericani in fuga dall’oppressione razziale. La disabilità del padre Fraser (affetto da sclerosi multipla) e l’orgoglio dei genitori, lavoratori instancabili e cittadini dignitosi, incontrano nei ricordi lo sguardo di una bambina sull’America degli anni Sessanta e Settanta. Nel quartiere periferico e nero dove è cresciuta, Princeton e Harvard non si vedevano neanche all’orizzonte (ma lei, incredibilmente, avrebbe trovato la strada per raggiungerle). Un appunto: per uno sguardo attuale sulla vita nel ghetto del South Side, invece, recuperate assolutamente la serie tv Shameless (uno spaccato di realtà così autentico da sembrare inverosimile).
Il nonno Southside
Nella sua infanzia felice ma piena di dubbi e ambizioni segrete, Michelle Robinson era circondata da zie e zii che cantavano nel coro della chiesa, suonavano nelle band e dirigevano il Laboratorio dell’operetta per bambini. Con una figura centrale, quella della zia Robbie, sua insegnante di pianoforte fin dalla tenera età, tra scontri furiosi e un conflitto giocato sull’importanza di imparare un metodo e fissarsi un obiettivo. Tutte skills raggiunte grazie all’incontro con la musica, e poi fruttate durante gli anni da First Lady.
Ma “il fulcro musicale della mia famiglia era il nonno Shields”, racconta lei nel libro, parlando della figura quasi mitica del nonno materno. Falegname spensierato ed eccentrico, complottista ferito dal classismo razziale e quindi sulla difensiva, era tornato nel South Side dopo aver lavorato per anni nel West Side (da qui il soprannome affibbiatogli dai nipoti). La descrizione che l’ex First Lady fa dell’impatto che quell’uomo ebbe sulla Michelle bambina, è commovente. La casetta di ‘nonno Southside’ era un tempio della musica costruito con sacrificio. Registratore a bobina, stereo e altoparlanti in ogni stanza e perfino in bagno! (NB: ricordarsi di segnarlo in wishlist). E ancora un vasto impianto in salotto, disposto in un sistema di armadi e armadietti assemblati con pezzi scovati al mercato dell’usato. Ma soprattutto dischi. Dischi ovunque, collezionati negli anni, unico grande investimento della sua vita. Piccole spese folli per ogni lavoretto di falegnameria retribuito. “La musica sembrava un antidoto alle sue preoccupazioni”.
Innamorarsi con Stevie Wonder e Marvin Gaye
Quando Michelle Robinson incontrò Barack Obama (“un ibrido”, ricorda ancora, “figlio di un padre nero, keniano, e di una madre bianca originaria del Kansas”, “nato e cresciuto a Honolulu”, ma con un’infanzia trascorsa “a far volare aquiloni e cacciare grilli in Indonesia”), rimase affascinata da quel giovane uomo che le fu presentato come un prodigio. Barack arrivò nel prestigioso studio legale dove Michelle lavorava da tempo, e dove glielo affiancarono perché lo formasse come avvocato. Lui era cerebrale, spiritoso, ma così preso dai suoi obiettivi da sembrare ingessato. Eppure le raccontò che un tempo era stato più ribelle e sfrenato (e se la giocò bene, quella carta): “All’Occidental College aveva cavalcato l’energia ormai calante degli anni Settanta innamorandosi di Jimi Hendrix e degli Stones”.
Lei, invece, era una giovane donna cresciuta nel South Side, a pane e musica, studiando legge in modo compulsivo. Non vedeva l’ora d’indossare un tailleur ed emanciparsi guadagnando cifre impensabili, ma la sera tornava a casa e gettava la maschera. Si innamorarono ascoltando e parlando di musica. Per Michelle non avrebbe potuto essere altrimenti: “Barack e io parlavamo senza sosta. Discutevamo dei pregi di ogni singolo album di Stevie Wonder, e poi facevamo lo stesso con Marvin Gaye. Io ero innamorata cotta”.
Il ritmo rivoluzionario degli Obama alla Casa Bianca
Che quella degli Obama sarebbe stata una presidenza fortemente segnata dalla musica, era quasi scontato. Anche prima di diventare “qualcosa in più”, come ha definito lei quegli 8 anni alla Casa Bianca. Anni in cui Presidente e First Lady si sono circondati di artisti. Restano memorabili le esibizioni di Stevie Wonder – il mito comune della loro relazione – e Gloria Estefan, l’interpretazione che Béyonce fece di At Last di Etta James durante l’insediamento, Paul McCartney che dedicò a Michelle l’omonima canzone dei Beatles. E mentre Obama preparava i dibattiti caricandosi con i pezzi di Jay-Z, lei organizzava moltissimi seminari per ragazzi, veri e propri incontri con mostri sacri della musica aperti ai giovani.
Michelle era cresciuta, letteralmente, con la musica al massimo. Nel libro racconta scene di riunioni familiari in cui per parlarsi bisognava urlare, i regali di Natale venivano scartati “ascoltando Ella Fitzgerald” e le candeline si spegnevano “al suono del sassofono di Coltrane“. “Secondo mia madre, da giovane Southside (il nonno, nda) si era fatto un dovere di educare a forza al jazz i suoi sette figli, spesso svegliandoli prima del sorgere del sole con uno dei suoi dischi a tutto volume”.
Da Aretha Franklin a Rihanna
“Per me Southside era immenso come il paradiso – ricorda, facendo al nonno una dedica che non ho più dimenticato – E il paradiso, per come lo immaginavo io, doveva essere un posto pieno di jazz”. Forte di un’educazione musicale fieramente improntata sulla black culture, Michelle è arrivata a concedersi, a tempo debito, anche il rischio di sdoganare certi stereotipi, come la differenziazione tra ‘grande musica’ e ‘musica pop’. Se la signora Obama che conosciamo, oggi condivide la sua Workout playlist (con Cardi B, Destiny’s Child, Kanye West, Lizzo e Bruno Mars), è perché ha portato tutto questo anche nella sua coppia. Ai piani alti della politica, esposti nella più osservata delle vetrine mondiali. Trovando – e qui sta il bello – l’accoglienza giusta da parte di Barack.
Dopo tutti gli anni trascorsi sul pavimento del nonno a far merenda “ascoltando Aretha, Miles o Billie“, Michelle ha potuto normalizzare l’idea che anche una First Lady si alleni sul remix di Feelin’ so good di Jennifer Lopez. E guardate che non era scontato: c’è stato un tempo (proprio quello della prima presidenza degli Obama), in cui ascoltare Queen B e JLo ‘non faceva figo’, ma anzi, era considerato decisamente poco intellettuale. Figuriamoci un (ex) Presidente che ascolta Rihanna insieme a Bob Dylan. Dunque, grazie per le playlist e il mash-up culturale, cari Obama: At last… We found love in a hopeless place.
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