Dietro quegli occhiali dalla montatura bianca inconfondibile, dal sapore squisitamente estivo, e quell’ombelico sfoggiato con disinvoltura è insita una comune matrice rivoluzionaria. I primi, tratto distintivo di Lina Wertmüller, hanno accompagnato la regista romana nel corso della sua pluridecennale carriera, come estensione naturale del suo corpo dietro la macchina da presa. Un supporto ulteriore, dunque, per aiutarla ad interpretare sapientemente la realtà, ma sempre a modo suo. E poi quell’ombelico, apparso per la prima volta sul piccolo schermo italiano, che ha portato a un punto di non ritorno: merito, questa volta, di Raffaella Carrà.
Portatrici di un comune sentimento di anticonformismo, sia Lina Wertmüller che la Raffa nazionale hanno rotto gli schemi. E lo hanno fatto attraverso ciò che riusciva loro meglio: l’arte. Non a chiacchiere, ma a fatti. D’altronde, un gesto vale più di mille parole. E un ombelico mostrato in televisione in tempi non sospetti, così come la scelta di passare dietro la macchina da presa – adottando un’ottica convenzionalmente maschile – azzerano ogni tipo di congettura. Prima ancora del #MeToo, del Time’s Up e della Legge N. 442 del 5 agosto 1981 (in Italia), c’erano loro: Raffaella Carrà e Lina Wertmüller.
Perché Lina Wertmüller è ciò di cui abbiamo bisogno oggi
“Non ho mai fatto distinzione tra maschi e femmine. L’importante per me è avere carattere. Noi donne abbiamo una grandissima forza, ma purtroppo ancora oggi tocca farci rispettare, per valorizzare i nostri talenti.” – così si esprimeva Lina Wertmüller in quella che sarebbe stata una delle sue ultime interviste. Tirando le somme di un’intera esistenza vissuta senza rispettare le regole, o almeno quelle imposte in maniera dogmatica, dietro un semplice perché è così. Anche in una delle sue ultime apparizioni pubbliche, sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles, per l’accettazione dell’Oscar onorario, quello alla carriera, ha dato prova del suo carattere e del femminismo – sfoggiato pro tempore – dicendosi decisa a voler cambiare il nome alla statuetta in Anna. Un riconoscimento assegnato “per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa.”
Pur non definendosi mai apertamente femminista, Lina Wertmüller ne ha sposato numerose battaglie. La regista romana, una Giamburrasca sin dalla culla – per citare Il giornalino di Giamburrasca, con quell’altro peperino di Rita Pavone diretto da Wertmüller stessa – non amava le etichette. Del femminismo diceva infatti: “Non ho mai capito bene cosa significhi. Io mi sono sempre fatta rispettare, e quindi ho sempre voluto che lo fossero tutte le donne. Sì, forse lo sono.” Ma, senza alcun dubbio, amava la parità e, soprattutto, era mossa da un sincero slancio di meritocrazia.
In un’intervista ha difatti precisato: “Non si può fare questo lavoro perché si è uomo o perché si è donna. Lo si fa perché si ha talento.” E nel raccontare il conflitto di classe, nella disparità tra “proletariato” e “classe dirigente” e nella messa in discussione dei valori sia della Destra che della Sinistra, il tutto filtrato attraverso lo sguardo smaliziato delle piccole realtà, Lina Wertmüller ha dimostrato di averne da vendere. Lanciando il suo sguardo fino agli States, tagliando un traguardo fino ad allora impensabile.
Nel 1977, mentre in Italia si discuteva ancora sul fatto di abolire la legge che regolamentava il delitto d’onore, la regista romana – prima donna nella storia del cinema – ha ricevuto la candidatura al Premio Oscar per la Miglior Regia grazie al suo Pasqualino Settebellezze. Un importante esempio che spianò la strada alle varie Jane Campion, Sofia Coppola, Kathryn Bigelow – prima a vincerlo – Greta Gerwig e Chloé Zaho. E tutto grazie a Lei.
Il Tuca Tuca che ancora oggi ci fa ballare
La scomparsa improvvisa di Lina Wertmüller ci riporta con il pensiero a una medesima sensazione di straniamento provata alcuni mesi fa. Era il 5 luglio, infatti, quando si spense senza alcuna avvisaglia Raffaella Carrà. Se l’una ha giocato con il suo carattere e i suoi film provocatori, l’altra ha fatto appello alla sua immagine colorata, sfrontata e alla musica danzereccia. Entrambe, tuttavia, sono state mosse da un comune senso di rivoluzione. Il Tuca Tuca ci ha fatto ballare (e ancora continua a farlo) così come Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto e Questa volta parliamo di uomini (con Milena Vukotic e Nino Manfredi) ci hanno intrattenuto. Divertendoci, portandoci a riflettere e a scardinare gli schemi a favore dell’espressione della nostra personalità. Guidando, insomma, la mente e il cuore verso la libertà d’essere.
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