Nel nostro Paese, dove le condizioni del lavoro sono sempre più difficili perché il precariato regna indiscriminatamente, superano quota 7 milioni le donne inattive fra i 30 e i 70 anni. Inattive significa che non hanno un’occupazione e neppure la cercano. Non significa, però, che stanno con le mani in mano. Alcune seguono percorsi di formazione, e come tali rientrano nella categoria delle ‘inattive’, molte altre non lavorano fuori casa perché in realtà lavorano in casa, e tanto.
Donne inattive, la media Ue è più bassa
Un elemento tuttavia risalta: la media europea delle donne inattive si colloca al 32% del totale delle donne cittadine dell’Unione. In paesi come la Germania questo valore scende al 24%, mentre in Svezia siamo al 19%. La media italiana è nettamente superiore: 43%. Un valore che uno studio di Randstad Research considera troppo elevato se rapportato al numero di poco più di 20 milioni di occupati.
Barriere sul mercato del lavoro
Si tratta nel complesso di “un fenomeno apparentemente immutabile” spiegano i ricercatori. “Se si considera che a livello aggregato il tasso di attività è rimasto fermo dal 1990 ad oggi“. Non solo. In Italia le donne inattive sono soprattutto “al Sud e nelle isole, dove più di una donna su due (il 58%) è inattiva, mentre al Nord sono tre su dieci. Nella fascia di età 30-69 anni le donne inattive sono in stragrande maggioranza casalinghe a tempo pieno (4,5 milioni), per scelta o obbligate, come conseguenza di scoraggiamento per le barriere all’ingresso e al reingresso nel mercato del lavoro.”
Pensionate: sono 2,5 milioni
E poi ci sono le donne in pensione: sono 2,5 milioni, tra pensioni di anzianità, sociali e di invalidità. “Con una prospettiva della terza età più incerta degli uomini – si sottolinea nello studio – a causa di pensioni inferiori, raggiunte in età più giovane.” Il tasso di inattività femminile è comunque fortemente legato all’età. Dal 70,6% delle donne attive tra i 35 e i 44 anni si scende al 47,4% nella fascia d’età fra i 55 e i 64 anni. Quali sono le possibili soluzioni? In Italia la spesa pubblica in asili nido è solo lo 0,08% del Pil, tra le più basse d’Europa. E l’investimento da 4,6 miliardi di euro previsto dal PNRR per aumentare di quasi 265mila posti i servizi della prima infanzia va nella giusta direzione.
I congedi parentali e la formazione
Ma per completare lo sforzo servirebbero congedi parentali meglio distribuiti e un sistema fiscale che non penalizzi il lavoro del secondo lavoratore della famiglia. L’uguaglianza di genere nella cura dei bambini si può promuovere attraverso il diritto individuale a un congedo non trasferibile, ben remunerato e di uguale durata per donne e uomini. Un altro ambito in cui investire è quello della formazione. Anche perché per le donne il livello di istruzione sembra avere un’importanza particolarmente alta, più che per gli uomini. A discapito dell’esperienza e di altri fattori che possono contribuire all’occupabilità.
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