“Il potere logora chi non ce l’ha” dettava una delle più note citazioni – che non sono poi poche – attribuite ad uno dei più importanti statisti della politica italiana: Giulio Andreotti. Lui il potere lo conosceva bene e lo aveva ottenuto molto presto. A soli 28 anni nel 1947 fu Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio rispettivamente nei governi De Gasperi e Pella. Sette volte Presidente del Consiglio e per ventuno volte Ministro in diversi dicasteri. Morto il 6 maggio del 2013, oggi avrebbe compiuto 103 anni. Ricordare la vita di Andreotti significa sfogliare le pagine della nostra storia, rispolverare i momenti bui, ma anche quelli di un’antica gloria. Andreotti sintetizza la storia del nostro Paese nel periodo in cui è vissuto. Uscito dalla guerra sconfitto, povero e per lo più contadino, era diventato alla fine del 1991 la quinta potenza mondiale.
Il famigerato mistero che avvolgeva Andreotti
“A parte le guerre puniche mi viene attribuito veramente di tutto”: altra battuta fulminante. Attorno alla figura di Andreotti ha sempre aleggiato una nube di mistero, non a caso Montanelli lo descriveva come “colui che aveva fornito agli italiani la chiave di tutti i loro misteri”. Nell’opinione pubblica era insita la convinzione che non vi fosse scandalo in Italia che Andreotti non poteva non conoscere o prevedere. Era noto per la sua imperscrutabilità, per la freddezza con la quale gestiva ogni situazione e la precisione con la quale tesseva i propri piani.
Negli anni della sua lunga carriera politica ha ricevuto numerose accuse: di antisionismo per la sua politica filo-palestinese, di affiliazione a Cosa Nostra, e di anteporre gli interessi del Vaticano a quelli nazionali. Protagonista indiscusso della scena politica, ha collezionato e catalizzato inevitabilmente su di se oneri e onori di un tale potere. Andreotti sosteneva che “non esistono soluzioni di centro-sinistra o di centro-destra o di centro. Esistono soluzioni valide e basta”. Forse è proprio questa la linea guida che più di tutte calza con la sua figura politica. Andreotti non può essere circoscritto in unico pensiero politico o in alcuna ideologia, se non in un lucido e forse a volte gelido pragmatismo.
L’arte politica
Nonostante la corrente Andreottiana fosse considerata a destra nella DC, in campo doroteo, alla guida dei ben tre governi che si succedettero negli anni della solidarietà nazionale vi fu proprio Giulio Andreotti. Per decenni ne aveva evitato sotto pressioni americane il coinvolgimento. Fu lui a giustificare allo storico alleato statunitense e ai governi democratici europei l’ingresso del PCI, seppur non ancora formalmente, nell’esecutivo.
Nonostante l’atlantismo a cui la DC rimase sempre fedele, Andreotti, controcorrente, intesse importanti rapporti in Medioriente insidiando il monopolio a stelle e strisce. Nel 1983 in qualità di Ministro degli Esteri, destò scalpore la sua decisione di invitare il leader dell’OLP Arafat nell’aula di Montecitorio. Soprattutto negli Stati Uniti non furono ben visti i suoi gesti di conciliazione nei confronti dell’allora presidente libico Gheddafi, accusato dagli USA di istigazione al terrorismo. Andreotti era fortemente convinto dell’importante funzione internazionale dell’Italia, che per la sua natura mediterranea non doveva rimanere provinciale. La stabilità del Mediterraneo era un interesse primario italiano prima ancora che americano. In virtù di ciò promosse costantemente la necessità di una soluzione negoziata al conflitto israelo-palestinese, che Andreotti definiva un “conflitto fra due ragioni”. Profondamente europeista inoltre guidò il Paese verso le iniziative diplomatiche che tendevano all’avvicinamento fra Est e Ovest dopo gli anni della Guerra Fredda.
Vi riportiamo il frammento di un’intervista di una Raffaella Carrà visibilmente emozionata ad Andreotti come Ministro degli Esteri, nell’edizione del 1985 di Pronto… Raffaella?
I tecnici e la crisi dei partiti
Andreotti ha vissuto un intera vita nella politica e per la politica. Oggi questo non rappresenta più un valore aggiunto. Con Tangentopoli e la crisi della cosiddetta Prima Repubblica e l’ingresso in campo di numerose figure manageriali, abbiamo assistito via via al crollo della fiducia da parte delle masse nei confronti dei partiti e dei cosiddetti “politici di razza”. L’elettorato tende oggi a familiarizzare e affidarsi maggiormente a coloro che vengono percepiti o si dichiarano estranei alla vita politica. Andreotti al riguardo affermava in un’intervista che “la politica non può mai esaurirsi nella tecnica. Essa è innanzitutto un moto ideale, umano e sociale”. Il politico dunque non è un semplice amministratore e non risiede automaticamente nell’anima di un manager di successo. Spesso è una predisposizione e soprattutto una missione totalmente diversa.
Negli anni di Andreotti, in momenti di crisi non veniva estratto magicamente “dal sacco” un salvatore della società civile. Le personalità venivano scelte e formate soprattutto all’interno del partito. Nella Prima Repubblica inoltre i partiti non si esaurivano nel pensiero di una persona sola, ma rispecchiavano l’equilibrio delle varie correnti che vivevano al suo interno. La DC difatti in vari momenti della storia ha continuato a camminare anche senza la leadership di Andreotti.
Lo stesso non si può affermare dei partiti di oggi dove purtroppo sempre più spesso sono i leader e non i progetti politici ad essere al centro, in primis nei loro loghi. “Il politico deve avere l’umiltà di non considerarsi detentore del monopolio sociale, ma non può transigere sulla fierezza di sentirsi portatore di un mandato prioritario, quello elettivo” dettava Andreotti. La differenza e la superiorità di un politico rispetto ad un tecnico risiede tutta in questa affermazione. Il politico è una carica elettiva, risponde al popolo, un tecnico risponde solo a se stesso.
LEGGI ANCHE: Il calendario degli eventi va in tilt: il Covid-19 arresta nuovamente il settore