Ieri è stato un giorno solenne e di festa per la nostra Repubblica, che vede il ritorno del Presidente Mattarella al Quirinale. Se da una parte, consapevoli della volatilità della stabilità politica odierna e delle incombenti responsabilità che gravano sul nostro Paese, oggi tiriamo un sospiro di sollievo nel vedere il premier Draghi, scelto da Mattarella, insieme a lui assumersi l’onere di guidarci. Dall’altra dobbiamo essere ben coscienti del fatto che loro non sarebbero dovuti essere lì. Se fossimo in un film in stile sliding doors fra quello che dovrebbe essere e quello che la realtà dell’Italia oggi è, rimarremmo molto delusi.

Draghi: il ‘pericolo’ del “Deus ex machina” in politica

In un parallela e ideale Repubblica, a questo giorno non avremmo mai assistito. Se tutto fosse andato come dettavano ben sessant’anni di consuetudine, nella storica Lancia blu ieri vi sarebbero stati altri presidenti pronti all’omaggio al Milite Ignoto.

Un Presidente del Consiglio dovrebbe essere espressione della maggioranza politica del Parlamento e il Capo dello Stato dovrebbe restare in carica per un unico mandato. Senza screditare o delegittimare in qualche modo gli attuali presidenti in carica, che anzi ne escono paradossalmente rafforzati, è importante che questo non divenga prassi.  Sarebbe la fine del nostro sistema politico. L’Italia, anche se in questi anni vi somiglia sempre meno, è una Repubblica parlamentare. Augurarsi che divenga prassi, che un parlamento eletto a rappresentanza del popolo ricorra poi in momenti di divisioni politiche, senza esitazioni, a un deus ex machina, è molto pericoloso.

Sancirebbe l’inutilità delle elezioni e soprattutto dei partiti. Che possono certamente a volte deludere l’elettore, non essere all’altezza delle aspettative, ma che incarnano comunque l’espressione più alta della nostra democrazia rappresentativa. Sono, nell’architettura democratica, i veri garanti della democrazia. Perché? Perché i politici a differenza dei deus ex machina o dei tecnici, sono cariche elettive. L’onore e l’onere di prendere le decisioni gliel’ha consegnato il popolo, che conferma o riduce ad ogni girone elettorale il proprio consenso. Logica questa che è alla base anche dei partiti dove un leader può perdere la propria posizione di Segretario di partito, se viene a mancargli al suo interno la fiducia. Ma i tecnici? I deus ex machina? A chi rispondono? Non al popolo, non al partito, ma a se stessi. E questo gioco è molto pericoloso. Soprattutto beffeggia la nostra democrazia, che prevede come figura superpartes solo il Presidente della Repubblica.

Il problema Draghi: il problema di essere il “migliore” 

Il problema non è Draghi in sé, il problema è quello che Draghi oggi rappresenta per il Paese: il “migliore” chiamato a risolvere il fallimento della classe politica. Un curatore fallimentare con esperienza e prestigio internazionali imparagonabili – perché superiori – al leader di partito con maggior consenso. La classe politica plaude, e anche se vede il problema, non agisce. Il risultato? Ci perdiamo tutti qualcosa. I nostri padri costituenti avevano consegnato maggiori poteri al Parlamento non a caso, perché incarna la sovranità popolare. Il capo dell’esecutivo ai loro occhi doveva essere il più esposto all’approvazione democratica. Prima con l’elezione proprio in Parlamento, poi come espressione della maggioranza di Governo, come della maggioranza all’interno del suo partito. Da alcuni anni chi ricopre questa carica spesso non possiede neppure uno di questi requisiti, tranne la fiducia, spesso a colpi di decreto sugli atti suoi e della compagine che guida, della maggioranza parlamentare. 

La punta dell’iceberg

I tecnici sono posti a servizio delle istituzioni, ma sono indipendenti ai partiti e forse a molti verrà da pensare che sia meglio così. Dopotutto è dagli Anni ’90 che il legame tra i partiti e la società civile si è indebolito e che i partiti non riescono più a riformulare un progetto politico all’altezza del loro ruolo passato. Nel nostro Paese si è incredibilmente passati dal come gestire i delicati equilibri della Guerra Fredda durante la prima Repubblica, agli ultimi vent’anni in cui la sinistra ha trovato il suo maggior collante nell’antiberlusconismo (ed oggi un po’ nell’antisalvinismo); mentre il centrodestra è ancora dipendente dalla figura di Berlusconi con il centro polverizzato o schiacciato dalle posizioni estreme.

La classe politica è in crisi da molto più tempo dell’ultima travagliata legislatura. Draghi non è altro che la punta dell’iceberg in discioglimento da quasi trent’anni. Ma allora perché difendere i partiti? Perché il primato della politica e non della tecnica va difeso.

Dopo Draghi una nuova dignità politica 

La politica dovrebbe servirsi dei tecnici per le sue valutazioni e non i tecnici a guidare la politica. Il potere della tecnica impera per la mancanza di un vero progetto politico: valori e soprattutto quella dignità citata 18 volte proprio dal Capo dello Stato nel discorso programmatico del reinsediamento. La gente ha perso la stima e il rispetto per i politici. Con queste premesse la miglior classe dirigente di questo Paese è poco incentivata ad entrare nell’arena, anche per l’infelice situazione della magistratura dopo il caso Palamara.
Serve una rinnovata dignità politica, fondata sulla propria idea di Paese, dopo che dai partiti personali a quelli  antisistema, passando per federalisti e nazionalisti, hanno fallito. Ai partiti serve senso di responsabilità e soprattutto coraggio se vogliono riprendere le redini del proprio primato. Un primato che oggi è conteso non solo dai tecnici, ma dai poteri dell’alta finanza, delle multinazionali. Poteri che possono sfuggire al controllo democratico.

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