In pochi anni, ha scalato i vertici del gradimento. Ben trentadue trasmissioni condotte finora, spaziando dal varietà, alla cronaca, all’inchiesta al talk. Massimo Giletti, è sempre sul pezzo, in prima linea a difendere i più deboli e a smascherare le magagne, mettendoci sempre la faccia, con coraggio e dedizione.
Un professionista amato e stimato, un uomo ‘del popolo’, come ama definirsi lui, che in tv urla contro le ingiustizie e nel privato ama la quiete e la solitudine. Un uomo da sposare… se solo si facesse acchiappare! Noi di VelvetMAG lo abbiamo inseguito, appena tornato dalla coraggiosa missione e trasmissione in Ucraina per farci raccontare in esclusiva la sua testimonianza e anche un po’ il Massimo Giletti più privato.
Intervista esclusiva di Massimo Giletti a VelvetMAG
Massimo, siamo abituati a vederti in tv, sempre pronto a ‘lottare’ nella tua Arena, per difendere i diritti dei più deboli e portare alla luce le ingiustizie. Anche nella vita sei così combattivo?
La televisione proietta una immagine, che, seppur filtrata da dinamiche comportamentali ed etiche, dovrebbe rispecchiare il più fedelmente possibile, quello che si è anche nella vita reale, i propri valori e i propri ideali. Rivedendomi, durante i dibattiti, mi percepisco come un torrente in piena, esattamente come sono nella vita, quando devo perseguire un obiettivo o cerco di prendere le parti di qualcuno in difficoltà, ma c’è un lato, molto profondo, privato, che è quasi all’opposto di ciò che si vede in tv. Sono un uomo che ama la quiete, la pace, rifuggo i rumori e la folla, diciamo che sono un po’ un sognatore con i piedi per terra. Ho un’indole normale, che deriva dalle mie radici e dagli insegnamenti che mi hanno dato i miei genitori.
Quale dei due preferisci, il Massimo della vita extra televisiva o il Giletti che tutti conoscono?
Sono complementari. Televisivamente, mi interessa dare un prodotto di qualità e mi definisco un artigiano, che lavora ora dopo ora al suo programma, per perfezionarlo sempre di più. Privatamente, da sempre, ma con poco successo, cerco di migliorare gli aspetti del mio carattere più complessi. Una cosa accomuna il personaggio e l’uomo, l’umiltà, non ho mai pensato un solo giorno di essere arrivato e lotto sempre per raggiungere nuovi obiettivi e traguardi, ringraziando per tutto ciò che ho ottenuto dalla vita.
In effetti sei molto cordiale con tutti.
Ti sorprende? Credo sia la normalità di cui parlavamo sopra: mi viene spontaneo, anche perché credo sia un dovere di chi raggiunge il successo, di chi si fa portavoce di milioni di persone, che non hanno la possibilità di dare forza alle loro posizioni, ai loro disagi, alle loro sofferenze. Senza il pubblico, noi che facciamo la tv, non esisteremmo.
Come riesce Massimo Giletti, dopo trentadue anni di televisione, a tenere ancora incollate migliaia di persone?
Con la passione. Il pubblico lo sente, lo vede, segue le mie trasmissioni, perché si rispecchia nella realtà che raccontiamo e che cerchiamo di portare sullo schermo il più fedelmente possibile. Cerco di creare sempre nuove sfide con me stesso, alzando di volta in volta l’asticella, per fare arrivare a tutti argomenti complessi, attraverso un linguaggio semplice e comprensibile. Anche nella scelta di lasciare la Rai mi sono messo in gioco, rischiando, perché volevo vedere se fossi in grado di creare da zero qualcosa di nuovo.
Non credi che lavorare in tv ed essere così popolari, possa creare uno stato di onnipotenza?
Certo, la tv è come una sorta di liturgia e in quel momento il conduttore è il sacerdote che la celebra, ma il limite sarebbe proprio quello di credere di essere un dio solo perché si appare. Per me lavorare in tv è una missione, uno strumento per cercare di cambiare questo Paese. Io sto con il popolo, non sto nei palazzi. Ho combattuto battaglie durissime, pagando un prezzo, in termini personali, molto alto. Tra le più importanti, quella per impedire la scarcerazione dei boss mafiosi, che mi è ‘costata’ la scorta, ma anche la lotta che ho portato avanti per l’abbattimento dei vitalizi, che, in parte ha contribuito all’addio alla Rai. Ho trattato argomenti coraggiosi, parlando a quattro milioni di persone, spezzando la confort zone della offerta domenicale di Rai Uno, con una certezza: la tv deve anche dare un pugno nello stomaco, per arrivare al cuore e alla testa della gente.
E’ anche per questo che hai deciso di andare in Ucraina, rischiando la vita, per realizzare una diretta di Non è l’Arena?
E’ stata una scelta che appartiene al mio modo di raccontare la guerra. Se non vedi con i tuoi occhi non puoi essere credibile. Sono i tuoi occhi che devono poi raccontare, non flash di agenzia. Per questo sono stato anche in Afghanistan, in Libia, in Iraq, in Bosnia. Un giornalista deve essere prima di tutto un reporter, deve riportare ciò che accade sul campo, non per sentito dire o dopo aver letto le agenzie di stampa.
Hai avuto paura?
Si, la paura è un sentimento umano. Io temo molto chi non prova paura, perché vuol dire che non utilizza la parte razionale, che serve per evitare di assumere rischi inutili. E’ normale che quando senti le sirene in piena notte, si venga assaliti dall’ansia. Il momento peggiore è stato quando ci siamo spinti a tre chilometri dal fronte. Abbiamo percorso circa 40 chilometri di una superstrada, vicino Mykolaiv. Non c’era nessuno in giro, solo carcasse di mezzi, colpiti da droni, buche nella strada e ai margini, bombe a grappolo, sparse ovunque. Il rischio era quello di venire attaccati, perché scambiati per un mezzo che trasportava armi. Al posto di blocco, ci avevano sconsigliato di andare avanti e non ci hanno chiesto nemmeno i documenti… solo un pazzo avrebbe proseguito!
Perché Massimo Giletti ha messo a repentaglio la sua vita?
Perché il mio lavoro è anche questo, non solo stare sotto i riflettori, al sicuro in uno studio televisivo, a migliaia di chilometri da dove la gente muore. Poi c’era uno stimolo in più: fare una diretta da un luogo di guerra, conducendo la trasmissione da lontano E’ stato tecnicamente molto complesso, ma un successo.
Che ti porti dietro da quei luoghi di morte?
Ci sono delle immagini indelebili, che resteranno dentro di me per sempre. Una poesia di Quasimodo, racconta dell’odore della morte. Io lì ho capito cosa volesse dire il poeta nei suoi versi: è un odore acre, l’ho sentito quando, sono arrivato sul luogo dove era stata rasa al suolo una caserma. In quel momento, stavano estraendo dalle macerie i corpi di tante ragazze. Una in particolare mi ha colpito: era intatta, ma il suo volto era devastato. Di lei ricordo un particolare, le unghie smaltate di giallo e blu e un piccolo anello al dito. Girare quelle immagini è stato molto duro. Io e i due operatori, durante il viaggio di ritorno, durato 200 chilometri, non siamo riusciti a dire una sola parola, per quanto fossimo scioccati.
Ti ha cambiato questa esperienza?
Ha rafforzato l’idea che già avevo: la guerra è pura follia ed è troppo comodo parlarne nei salotti. L’Europa dovrebbe avere maggior peso e staccarsi dalla guida dominante degli Stati Uniti, per aprire un dialogo con la Russia.
Cosa ha regalato negli anni questo lavoro a Massimo Giletti?
Un ventaglio di emozioni straordinarie, intense, ma anche sconfitte, amarezze. Sono diventato uomo, ho sempre dovuto lottare, sempre in salita. Ho fatto tutto da solo, sono partito da casa con due valigie alla volta di Roma. Mio padre era contrario, perché preferiva che continuassi la tradizione imprenditoriale familiare, ma dopo anni di dura gavetta e grazie a Minoli, che mi ha insegnato molto e ha creduto in me, sono fiero di aver raggiunto i miei obiettivi e di avere dato tante soddisfazioni anche ai miei familiari.
L’esperienza più bella?
A Loreto nel 1995, durante la giornata mondiale della gioventù. Ero agli albori della mia carriera giornalistica, davanti a 300 mila ragazzi, con papa Wojtyla accanto, mentre dall’altra parte dell’Adriatico c’era la guerra. Era un sabato sera, a dispetto delle previsioni che dicevano che il papa di sabato sera non avrebbe funzionato, vincemmo lo share della serata con numeri di ascolto pazzeschi. Fu molto emozionante. Tutto.
E la peggiore?
Un durissimo scontro che ebbi in diretta con Capanna: scaraventai il suo libro per terra e mi beccai pure 20 mila euro di multa. Lui, avendone due, difendeva a spada tratta i vitalizi, io li condannavo strenuamente e non accettavo che uno storico estremista di sinistra, che avrebbe dovuto stare dalla parte degli ultimi, difendesse i politici e il dio denaro. Il clima in studio era già molto teso, ma è esploso perché, mentre raccontavo la triste storia di una giovane donna, mamma di tre figli, morta di infarto, mentre correva alle 7 di mattina per prendere il treno, scorsi sul suo volto un sorriso beffardo. Mi disgustò. Fu una reazione violenta la mia, ma lo rifarei altre cento volte.
C’è qualche traguardo televisivo che vorresti ancora raggiungere?
Ho condotto ogni genere di programma, dal varietà alla politica, ma l’inchiesta a 360 gradi resta sempre il mio primo amore. Sono nato a Mixer, realizzavo dei reportage molto interessanti e mi piacerebbe in futuro pensare ad un programma simile. Credo che in tv ci sia troppo talk e te lo dice uno che lo fa, si dovrebbe fare anche altro, dare più informazione al pubblico per permettere una maggiore capacità riflessiva.
Ti resta spazio per la tua vita privata?
Poco. Il mio lavoro, non mi permette di staccare mai completamente, nemmeno quando sono concentrato su altro. È un limite, che domina sul privato.
Non è un po’ un alibi?
Sono vent’anni che lavoro sabato e domenica in modo totalizzante e questo è incompatibile con molte relazioni interpersonali. Però forse hai ragione, Francesca: “Nihil difficile volenti“. Per ora non ho ancora trovato una risposta.
Pensi sia valsa la pena questo sacrificio?
Me lo domando spesso anche io. Istintivamente ti rispondo di sì, perché questa vita e questo lavoro mi hanno dato la liberà di fare sempre quello che desiderassi, senza vincoli e senza dover rendere conto a nessuno. Ma se mi fermo a riflettere, più passano gli anni, più mi accorgo di aver perso dei momenti di vita, che non torneranno. Sono un po’ malinconico e un po’ nostalgico.
In questo tuo mondo fantastico, cosa porti dentro e cosa lasci fuori?
Lascio fuori il menefreghismo, il pressapochismo, le persone opportuniste e aride. Ho sempre lottato contro l’aridità. Porto dentro l’energia vitale, che traggo dalla natura e riesco a trovare anche nella mia solitudine, che non è triste, perché è una scelta di vita. Ho necessità di silenzio per ricaricarmi e lo cerco disperatamente, perché passo la maggior parte del mio tempo tra persone e fiumi di parole.
Non c’è mai stata una donna per la quale avresti rinunciato a questa solitudine?
Anche mentre ti parlo, in questo momento, ci penso, perché c’è una parte di me che ha vivo questo desiderio di condivisione, accanto al mio più grande timore, che è quello di vivere la quotidianità. Un rapporto va curato, alimentato ogni giorno, io temo fortemente la noia e la routine. E’ un tormento che mi ha accompagnato tutta la vita. Magari un giorno troverò una soluzione.
C’è qualcosa che ti manca?
La serenità. Sono un insofferente, la ricerco costantemente, anche davanti ad un alba, un tramonto o un mare calmo e limpido, ma come quegli attimi, è effimera e quando mi sembra di averla afferrata, già sono alla ricerca di un’altra ‘dose’. Da qualche altra parte.
Che rapporto hai con la fede?
E’ un arricchimento, un conforto, un supporto, che cerco, non solo nei momenti difficili, senza l’arroganza di chiedermi perché accadano certe cose, piuttosto che alte.
Un sogno che speri di realizzare?
Comprarmi prima o poi una piccola isola deserta in mezzo al mare, poco più che uno scoglio e renderla un punto di riferimento della mia vita futura. Un po’ come un Robinson Crusoe… però senza Venerdì tra i piedi!