I funerali sono sempre più occasione di scontro fra la polizia di Israele e cittadini palestinesi a Gerusalemme. A pochi giorni dalle cariche della polizia sul corteo funebre della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, violenti tumulti, con diversi feriti e arresti, sono avvenuti nella notte fra ieri e oggi 17 maggio.
Erano in corso, nella serata di ieri 16 maggio, i funerali di Walid al-Sharif, un giovane palestinese rimasto ferito il mese scorso sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme durante scontri fra fedeli musulmani e reparti di polizia israeliana. Al-Sharif, 23 anni, è deceduto ieri, e in serata il corteo funebre è partito dall’ospedale al-Maqassed di Gerusalemme Est. Ha quindi raggiunto la moschea al-Aqsa, dove erano in attesa circa un migliaio di persone, ed è poi terminato nel vicino cimitero Mujahieddin. Duri scontri, riferiscono i media, hanno caratterizzato tutto l’evento.
La Mezzaluna Rossa (equivalente della Croce Rossa) riferisce che 71 persone sono rimaste ferite durante i funerali del giovane. Si tratta di palestinesi contusi o intossicati da gas lacrimogeni. Anche diversi agenti della polizia israeliana sono rimasti feriti. Quindici gli arresti. Il quotidiano israeliano Yediot Ahronot ha titolato in prima pagina: ‘Gerusalemme, scene di guerra’. “Le nostre forze – ha sostenuto la polizia israeliana in un comunicato – si sono trovate di fronte centinaia di violenti, che hanno cercato di attaccarle e di sconvolgere l’ordine pubblico. I facinorosi hanno lanciato pietre, blocchi di cemento, oggetti contundenti. E hanno sparato fuochi d’artificio ad altezza d’uomo“.
Ma secondo il giornalista israeliano Oren Ziv, di +972 Magazine, era stata prima la polizia ad “attaccare i funerali di Sharif“. Cercando di “bloccare i palestinesi che marciavano da Al Aqsa al cimitero di Salah al-Din“.
La leadership palestinese ha protestato con veemenza contro il comportamento della polizia di Israele. E ha collegato questi incidenti con quelli avvenuti, venerdì scorso 13 maggio, ad altri funerali a Gerusalemme. Le forze di polizia avevano fatto irruzione con forza nel cortile e all’interno dell’ospedale St. Joseph. Nel momento in cui stava per aver inizio il corteo funebre di Shireen Abu Akleh, 51 anni, la reporter di Al Jazeera uccisa a Jenin, in Cisgiordania, l’11 maggio.
La cronista palestinese, con cittadinanza americana, documentava un’operazione militare lanciata dall’esercito israeliano attorno al campo profughi quando è stata assassinata a sangue freddo – secondo Al Jazeera – dalle forze armate israeliane. Lo Stato israeliano, a partire dal premier Naftali Bennett, aveva rigettato le accuse, affermando che l’uccisione della cronista era da riportare a un’azione armata sconsiderata di miliziani palestinesi. Ma testimonianze dirette e ricostruzioni dei fatti a opera di giornalisti internazionali lo hanno smentito.
Anche il Qatar, l’Emirato arabo in cui ha sede l’emittente Al-Jazeera, aveva subito accusato Israele. E il Consiglio di sicurezza dell’ONU aveva espresso una condanna all’unanimità dell’uccisione, chiedendo “un’indagine immediata, approfondita, trasparente e imparziale“. Due giorni più tardi, ai funerali a Gerusalemme Est, la polizia aveva caricato violentemente il corteo, facendo quasi crollare a terra la bara di Shireen Abu Akleh, portata a spalle da diverse persone. Le immagini avevano fatto il giro del mondo suscitando sdegno e costernazione per i metodi totalmente inaccettabili da parte delle forze dell’ordine. E la riprovazione perfino degli Stati Uniti, storici alleati dello Stato di Israele.
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