Alessio Della Valle è al suo esordio alla regia ma ha già molto da dire e da mostrare. E American Night ne è l’esempio lampante. Definito come un “miracolo italiano”, il lungometraggio è approdato prima alla 78° Mostra del Cinema di Venezia e, dallo scorso 19 maggio, finalmente anche in sala.
L’arte che irrompe nelle nostre vite come agente del caos, rompendo gli equilibri con la sua forza viscerale e la sua brutale bellezza è il tema principale di American Night, opera prima di Alessio Della Valle. Un’opera che potrebbe essere definitiva “miracolosa”. Realizzata quasi interamente con fondi italiani, vanta una troupe e un cast internazionali, in cui figurano diversi Premi Oscar. Tra tutti, il montatore Zach Staenberg e il compositore candidato all’Academy Marco Beltrami.
Il film vanta la presenza di Jonathan Rhys Meyers, Emile Hirsch, Paz Vega, Jeremy Piven, Michael Madsen; da segnalare anche la partecipazione speciale di Maria Grazia Cucinotta e Anastacia, che ha eseguito anche la canzone originale American Night. Ma, soprattutto, la pellicola vanta come grandi protagoniste le opere d’arte originali di nomi del calibro di Andy Warhol, Jeff Koons e Mario Schifano. Presentata come evento speciale alla 78° Mostra del Cinema di Venezia, la pellicola è prodotta da Pegasus Entertainment e Martha Production ed è distribuita da 01 Distribution. È stata inoltre scelta per l’apertura di ESTIMAR, Il festival del cinema italo-spagnolo di Palma di Maiorca, che si svolgerà il prossimo 10 giugno. Noi di VelvetMAG abbiamo potuto parlarne in esclusiva direttamente con il regista, Alessio Della Valle.
Intervista esclusiva ad Alessio Della Valle, regista di American Night
Partirei proprio da American Night che è uscito nelle sale il 19 maggio, il fine si pone come una riflessione sul mondo dell’arte: come e in che misura l’arte ha influito sulla tua vita?
Sì, assolutamente è una riflessione sull’arte. Stavo riflettendo che l’arte nella mia vita ha avuto un impatto fin da piccolo. A 17 anni mi sono trovato a fare l’assistente di un pittore che stava per realizzare un ciclo di tre affreschi. Proprio fisicamente stavo sulle impalcature a inchiodare le sinopie della Madonna, a dare la calce e assistere il pittore mentre dipingeva. Poi, successivamente mi hanno chiesto di girare documentari agli Uffizi, alla Galleria Borghese; quindi, sono stato da solo con la troupe e il museo chiuso, davanti ai Giotto, ai Caravaggio. Sicuramente l’arte ha influito molto, se non conscio, a livello inconscio.
Come è nata l’idea di American Night?
È nata perché riflettevo, mentre scrivevo quella scena, su come gli esseri umani – in ogni luogo, in ogni lingua, in ogni cultura e religione – abbiano sempre creato qualcosa. Dalla cultura delle caverne, l’uomo ha sempre avuto bisogno di creare. E questo, come dice il personaggio di John Kaplan (Jonathan Rhys Meyers n.d.r.), nella scena della conferenza “è ciò che ci rende esseri umani”. Quindi, l’arte, la creatività è ciò che ci rende umani.
In merito al tuo esordio alla regia, ti sei trovato a gestire una troupe e un cast internazionali con diversi Premi Oscar: cosa lo ha reso possibile? Cosa hai provato a destreggiarti con questi nomi?
Mi sono sentito felice e onorato. Gli abbiamo mandato la sceneggiatura e hanno risposto positivamente, volendo contribuire creativamente a questo film. È stato un bel viaggio, un bel percorso.
American Night, un noir sull’arte ma non solo
Nel film ci sono due personaggi, ovvero Kaplan (Jonathan Rhys Meyers) e Michael Rubino (Emile Hirsch), le cui storie fanno da sfondo alle vere protagoniste che sono le opere d’arte. Sono presenti opere di Andy Warhol, Mario Schifano, Jeff Koons. In più, hai visto che la Marilyn di Warhol di recente è stata battuta per 195 milioni di dollari: cosa ha significato per te rapportarti in prima persona con queste opere, in vista del tuo legame con il mondo dell’arte?
American Night è un film sull’arte, ambientato nel mondo dell’arte in cui ci sono tutte le forme dell’arte: dall’action panting, alla body painting, la performance, la videoarte, pittura, scultura, musica, poesia etc. Beh siamo stati sorpresi e onorati che questi artisti di fama mondiale abbiano accettato di partecipare al film. Ma anche tutte le sculture e le pitture che si vedono che non sono così famose come la Marilyn sono tutte opere d’arte reali di artisti contemporanei. Il fatto che la Marilyn sia stata venduta a una cifra così alta dimostra il potere dell’arte, che cosa l’arte vale per gli esseri umani.
L’intero film è una riflessione su cosa sia la pop art e cosa sia iconico, per questo ci sono riferimenti sulla cultura popolare da Bruce Lee a Kurt Cobain. Andy Warhol, ad esempio, ha preso Marilyn Monroe che era già iconica, ne ha fatto una serigrafia e l’ha resa un’altra icona, ed entrambe sono pop. Per questo ho scelto anche Propaganda di Mario Schifano: Coca Cola è un brand e lui, dipingendolo, ne ha tirato fuori un’icona. Abbiamo fatto questa scelta ad ogni livello. Per questo i personaggi hanno indossano sempre gli stessi costumi: per iconicizzarli.
Cosa ha reso possibile questo “miracolo italiano”?
Si è notato questo lavoro anche sulle luci. American Night, che è un film sull’arte, è anche un film sul doppio e sull’oscurità, come lascia intendere anche il titolo: l’American allude all’idea di un insieme polivalente, e Night che fa riferimento all’oscurità ma anche all’inconscio. L’arte riesce ad illuminare questa oscurità?
Assolutamente sì. Sono partito da personaggi noir, che sono per definizione “doppi” e questa duplicità c’è a ogni livello. Ci sono molte superfici specchianti: è un doppio che è presente visivamente, ma anche nella duplicità dei personaggi. E American Night è una doppia metafora: America come metafora del mondo e Night come metafora dell’inconscio e dell’oscuro.
Personalmente, in American Night io ci ho visto anche molto metalinguaggio: Tarantino nella struttura episodica, lo stesso Michael Madsen; come Nicolas Winding Refn: potresti considerarli dei tuoi modelli?
Sì e no, io in realtà sono partito da altri modelli. Per la struttura circolare, a capitoli, sono partito da film come Prima della pioggia di Milčo Mančevski, che vinse il Leone d’Oro a Venezia. Va detto che parte del film è stata girata dal direttore della fotografia che ha fatto Pulp Fiction e Le Iene e lui diceva sempre: “Quando ho letto la sceneggiatura, la struttura mi ha ricordato Pulp Fiction, però il tuo film è molto più artistico. Nel tuo film c’è ogni forma di arte.” Per riguarda Refn, io sono un fan, mi piacciono molto le sue luci al neon. In termini di stile, però, ero partito più da Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, in cui tutto è estremizzato: fotografia, scenografia, costumi sono molto iconici e molto forti. Io all’inizio ho scelto di utilizzare solo i tre colori primari e di illuminare il film con tanti neon.
Ho tenuto presente anche Drive (Refn). Per il neon, inoltre, stavo pensando anche a Blade Runner e a Wong Kar-wai, per questo mondo colorato. Ma in realtà, molte delle mie reference partivano però dai quadri preraffaelliti dell’Ottocento che ho visto alla Tate, a Londra, in particolare un pittore, Henry Wallis, e anche delle poesie.
È un film polisemico perché mette insieme una molteplicità di linguaggi e soprattutto molto pittorico.
Genio (ride, n.d.r.). Assolutamente sì, per anni io ho parlato di polisemia e tutti che mi dicevano “non lo capirà nessuno”. Ti racconto un aneddoto. In una versione precedente della sceneggiatura c’era un intero dialogo che Paz Vega (Sarah nel film, n.d.r.) faceva sulla polisemia, che poi ho tolto perché era troppo. (ride, n.d.r.)
Uno sguardo al futuro
Dopo questo “miracolo italiano”, come è stato definito perché è stato realizzato quasi interamente con fondi italiani e ti ha portato alla 78° Mostra del Cinema di Venezia, si saranno anche aperte delle possibilità?
Ci tengo prima di tutto a ringraziare la produzione, un’intera squadra composta da donne che è anche una cosa rara, le produttrici Martha Capello e Ilaria Dello Iacono. Innanzitutto, a Venezia abbiamo fatto uno show, non solo la proiezione, ma anche il concerto di Anastacia che ha cantato il brano del film (omonimo) e la mostra delle opere reali degli artisti: anche la presentazione era polisemica. (ride) Sono partito dal concetto di Duchamp: prendi un oggetto come una forchetta che è monosemico e, mettendolo in un museo, diventa polisemico e multistrato.
Il film, a livello semplice, è una sfera in cui tutti i personaggi sono tipici del noir: John Kaplan (Rhys Meyers n.d.r.) è l’antieroe, Michael Rubino (Emile Hirsch, n.d.r.) è l’antagonista, Sarah (Paz Vega, n.d.r.) è la moglie buona, Annabelle Belmondo è la femme fatale e Jeremy Piven (nel film Vincent, n.d.r.) è l’innocente. Qui ho aggiunto un personaggio che è quello di Shaky, il corriere (Fortunato Cerlino, n.d.r) narcolettico che porta un elemento di caos.
Per rispondere alla tua domanda, dopo la proiezione a Venezia è successa una cosa incredibile. Siamo stati contattati dall’Academy, dagli Oscar, che ci hanno chiesto la sceneggiatura per la loro collezione permanente. All’inizio pensavamo fosse uno scherzo e invece era vero: adesso siamo nel Museo degli Academy. Da lì siamo andati a Los Angeles a fare una campagna Oscar e abbiamo proiettato il film facendo incontri con il pubblico. Hanno partecipato membri del cast come Jeremy Piven, il compositore Marco Beltrami, il montatore Zach Staenberg.
Arte + Vita è davvero uguale al Chaos?
Io avevo nascosto il significato del film in una scritta al neon che avevo pensato come un’opera d’arte nella galleria di John Kaplan, ovvero “Arte + Vita = Chaos”. Zach Staenberg, quando lo ha visto, ha detto: “Questo lo dobbiamo usare per creare dei cartelli per dividere gli episodi.” Lui ha pensato ‘creiamo un cartello ‘Arte + Vita’ all’inizio.’ Poi lo giriamo, facciamo capire al pubblico che si torna indietro e raccontiamo gli stessi tre giorni che abbiamo visto nella vita di Michael, dal punto di vista di John Kaplan.
E poi il terzo capitolo ‘Arte + Vita = Chaos’ racconta il caos che si crea nella vita di tutti: e questo è il cuore pulsante. Io volevo rappresentare un po’ a tutti i livelli il rapporto tra l’ordine e il caos e l’arte come agente del caos. Un po’ come diceva John Lennon: “La vita è ciò che avviene mentre stai cercando di fare altro.” Tutti i personaggi cercano di fare qualcosa ma avviene sempre dell’altro, perché c’è un agente di caos che scombina i piani.
Sogno nel cassetto? Qualcuno con cui ti piacerebbe lavorare in futuro?
Sì, sono moltissimi gli attori sia italiani che stranieri con cui mi piacerebbe lavorare. Se devo dirti solo un nome, ti direi Daniel Day-Lewis. Anche perché se si è ritirato dalla recitazione, sarebbe una bella sfida convincerlo. (ride, n.d.r.)