Giovanni Raspini: “Ho praticato tante forme di autolesionismo, ora vorrei diventare uno scultore”
Il celebre architetto e designer si racconta in esclusiva a VelvetMAG
In occasione dell’affascinante mostra Il giro del mondo in ottanta gioielli, abbiamo incontrato nella barocca Coffee House di Palazzo Colonna, set dell’esclusiva esposizione, Giovanni Raspini. Il celebre architetto ci ha mostrato i suggestivi pezzi da lui creati.
Un viaggio affascinante alla ricerca del bello e della creatività senza confini. In questo senso Giovanni Raspini, ideatore del progetto, assume il ruolo di un nomade contemporaneo intento a far dialogare il suo concetto stilistico di gioiello e di creazione orafa con l’identità più autentica di ogni luogo del mondo.
Intervista esclusiva di Giovanni Raspini a VelvetMAG
Come nasce l’idea della mostra Il giro del mondo in ottanta gioielli?
Abbiamo portato qui a Roma l’esposizione, dopo aver toccato Milano dove c’è stato un consenso di sensibilità, un apprezzamento che ci ha fatto molto piacere. Tante volte non si lavora per i clienti. I clienti si dice sono il nostro pubblico, quelli a cui parliamo, come un attore che recita sulla scena di un teatro e si aspetta l’applauso, o i pomodori, a seconda di come vanno le cose. Qui a Roma manca la mongolfiera, una scultura in bronzo, emblema della mostra, che si ritrova poi nel catalogo con la prefazione dello studioso e amico Franco Cardini.
Cosa l’ha colpita della settecentesca Coffee House di Palazzo Colonna?
Il dialogo con l’esterno perché c’è una proiezione verso le terrazze ondulate che entrano dentro la sala e a sua volta lo spazio interno si proietta fuori. Ci sono dei tagli di luce, questo spazio ha valore come struttura, che è oltretutto centralissima.
Come prende vita il tema dei viaggi nelle creazioni di Giovanni Raspini?
Noi abbiamo l’abitudine, oltre ai pezzi che facciamo per il nostro catalogo, che sono destinati alla vendita, di fare dei pezzi speciali, che vengono raccolti nelle collezioni dedicate per le mostre. In passato abbiamo fatto Wild, i gioielli della Savana, Nautilus, i gioielli del capitano Nemo, ispirati alla profondità del mare, Vanitas Mundi, in cui abbiamo esplorato il senso della caducità della vita, e in ultimo i Gioielli da una Wunderkammer. Cerchiamo un tema su cui lavorare. Devo confessare che in questa ultima esposizione, tre o quattro pezzi sono stati recuperati, perché fare ottanta gioielli totalmente indipendenti è abbastanza impegnativo. Ero arrivato a una settantina, cinque pezzi in mostra erano già nel nostro repertorio.
Le pantere hanno davvero incantato i visitatori.
Questa è una vera e propria passeggiata di leopardi che può essere indossata al collo. E’ fatta di cera, è stata fatta per essere un vaso in vetro. E’ vent’anni che avevo le cere, ma non mi convinceva l’oggetto, è rimasto lì nel nostro archivio. Quando abbiamo deciso di organizzare questa mostra ho pensato che sarebbe stato bello farne un joker ed è bellissimo indossato. Questi leopardi che camminano hanno una leggerezza, una dolcezza, un’intensità straordinaria. E’ un modello fatto vent’ anni fa e mai utilizzato.
Qual è il monile che non dovrebbe mai mancare ad una donna?
E’ chiaro che l’anello è un accessorio che ha una notevole carica simbolica, che va oltre essere un ornamento. Basti pensare all’anello di matrimonio, di fidanzamento, i diamanti. Per il resto abbiamo polso, collo, orecchini. Il collo è importante, come bracciale si può mettere qualsiasi cosa, gli orecchini vanno e vengono, ma se una donna decide di avere intorno al collo una collana vuol dire che questa la deve valorizzare, le deve dare luce. Un anello si legge da venti centimetri, un bracciale da un metro, una collana può essere fatta anche per una sfilata. Sono oggetti di intensità diversi. Qui in questa mostra diamo enfasi alle collane, perché sono le cose più visibili. Nel tema del Madagascar l’anello è ricco, però la collana parla.
Giovanni Raspini come nasce la sua passione per i gioielli?
Eh, eh …(ride). Io facevo tranquillamente l’architetto di provincia, progettavo villini, condomini ad Arezzo, ma avevo una profonda passione per l’argenteria antica. Provengo da una famiglia di antiquari, io stesso l’ho fatto, mio fratello e la mia compagna sono antiquari. Qui a Roma venivo dalla signora Anna Bulgari in via Condotti a portarle gli oggetti che scovavo, lei è stata un’amica e maestra di vita importantissima per me per l’argenteria. Chiusi lo studio di architettura e c’era questa piccola azienda tecnicamente bravissima, ma povera sul piano commerciale e creativo e iniziai questa avventura. Sono un progettista di cose per la casa, non per la persona. Il mio mondo è l’arredamento degli interni, l’arte della tavola, le cornici, i candelieri, non i gioielli però il mondo desidera acquistare i gioielli e non l’argenteria. Il mondo dell’argenteria si è esaurito, commercialmente è inesistente. Il settore della gioielleria invece è un qualcosa legato alla moda, alla contemporaneità.
Come è riuscito a fare questo passaggio?
Con una fatica enorme. Ho un tipo di progettazione maschile, ferrosa, pesante, fatta di volumi, di superfici. Il progettare gioielli richiede una leggerezza, una frivolezza, un atteggiamento progettuale completamente diverso. Oserei dire la progettazione per la tavola, la casa e il regalo è un qualcosa di maschile, quella dei gioielli è femminile. Mi sono dovuto “femminilizzare”, ho dovuto cercare dentro di me delle corde che pensavo di non avere e ad un certo punto ho detto: “non sono capace di fare gioielli”, poi la necessità come si dice fa virtù… Provando e riprovando alla fine si trovano dei codici, si scovano delle risposte.
Come spiega la grande crescita del brand Giovanni Raspini e il consenso del pubblico?
Sono molto contento prima di tutto perché per trentacinque anni ho lavorato con delle persone di valore. Negli ultimi tre, quattro anni il fatturato ha avuto veramente una crescita importante. Credo che abbiamo raccolto il lavoro fatto nei decenni precedenti. Si è formato un consenso, una condivisione di sensibilità, un comune sentire che ha portato tanti soggetti a sceglierci, perché alla fine il fatturato significa persone che acquistano, che accolgono la tua proposta. E questo è accaduto per una comunicazione buona, per una messa a fuoco dei modelli. Di forme di autolesionismo ne ho praticate tantissime in questo percorso; ho fatto gioielli assurdi, impossibili, non indossabili, troppo pesanti, troppo costosi. Di forme per rovinarmi le ho sperimentate tutte, però alla fine sbagliando si impara. Provando e riprovando…L’esperienza, l’affinamento, imparando dagli errori, prendendo collaboratori bravi, alla fine si arriva.
Chi ha creduto per primo in lei in questa avventura?
Ah, ah, è difficile rispondere, perché è stata una progressione. In verità non lo so dire, perché trasformare un’azienda da argenteria a produzione di gioielli è stato per certi aspetti traumatico, però oggi siamo gioiellieri a pieno titolo, ci sono stati anche dei passaggi culturali significativi. Mi spiego: vent’anni fa parlare di gioielli era solamente un mondo fatto di oro e pietre preziose. I gioielli in argento non erano considerati gioielli e invece oggi anche un monile in ottone, in bronzo è un accessorio che segna un’appartenenza, uno stile, un’identità e ha un suo glamour, una sua contemporaneità. La clientela ha creduto in me, persone che fino ad allora avevano acquistato da me solamente cornici, bomboniere, tagliacarte, candelieri, quando hanno visti i primi bracciali hanno detto proviamo.
Il tema del viaggio e dei continenti è il lietmotiv della sua mostra, qual è il viaggio a cui più è legato e perché?
Quello che farò, però voglio ricordare l’Arabia Saudita dove ho lavorato dal 1976 al 1978 come architetto in un cantiere di costruzioni stradali e avevo l’incarico di andare a controllare i luoghi dove dovevano sorgere i cantieri. Una volta c’era un preventivo da fare per un cantiere ai confini con lo Yemen, tre giorni di viaggio per arrivare, faticosissimo, non esistevano strade, ma la notte c’erano dei cieli stellati meravigliosi. Un’Arabia totalmente agli inizi dello sviluppo, ma di una bellezza così pura e selvaggia.
Cosa ama fare Giovanni Raspini nel tempo libero?
Ho la passione per la scultura, anche se iniziare una carriera come sculture dopo i settant’anni suona ridicolo.
Complimenti non li dimostra affatto.
Grazie, siamo sportivi, sarà la vanità… (ride). Quella per la scultura è una passione tardiva, ma profonda. Devo dire che anche i miei gioielli in tanti casi sono sculture. Noi siamo specialisti nella fusione a cera persa, anche gli anelli che facevano gli etruschi erano sempre in cera e sempre erano fusi in oro, argento o in bronzo. La pratica con la scultura ce l’ho, ho iniziato un’attività da sculture con due ragazzi a cui credo moltissimo, siamo un soggetto multiplo, anziché un cantante solitario siamo un gruppo musicale, un gruppo artistico fatto di tre persone e spero che questa che è una passione, si trasformi anche in un’attività professionale. Vogliamo diventare degli scultori, ho questa passione che rispecchia il mio lavoro.
Vedo che ha tanti tatuaggi, in particolare questi sulle dita delle sue mani con le scritte “Hate” e “Love”.
Mi colpì la commedia musicale The Rocky Horror Show nel 1973 a Londra, mi ha trapassato il cuore. C’è un personaggio che si chiama Eddie che era tatuato in questo modo. Si procede sempre per imitazione di qualcuno, tutti abbiamo un idolo al quale tendiamo.