Borsellino, 30 anni fa la strage di via D’Amelio. La verità tarda ad arrivare
Dopo innumerevoli processi e il più grave depistaggio della storia italiana è ancora in corso il procedimento contro il boss latitante Messina Denaro. Ma ci furono mandanti esterni? Chi organizzò davvero l'attentato?
Si ricordano il 19 luglio i 30 anni dalla strage mafiosa di via D’Amelio a Palermo, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e 4 uomini, e una donna, della sua scorta. A oggi non sappiamo con certezza assoluta la verità sui mandanti esterni e quindi sul numero e l’identità di tutti gli attori coinvolti in uno degli attentati più efferati della storia d’Italia.
Emerge, tuttavia, non solo un livello mafioso ma anche di apparati dello Stato che deliberatamente giocarono un ruolo, quanto meno dopo l’eccidio al fine di oscurare la verità. È però difficile immaginare che apparati deviati dei servizi segreti non abbiano svolto azioni prima e durante l’esecuzione dell’attentato.
Cos’è la strage di via D’Amelio
La strage di via Mariano D’Amelio a Palermo, dove il giudice Paolo Borsellino, 52 anni, stava andando a trovare la madre e la sorella, avvenne alle 16:58 di domenica 19 luglio 1992. Una Fiat 126, imbottita di 90 chili di esplosivo e telecomandata da breve distanza, saltò in aria dopo che il giudice era da poco uscito da un veicolo blindato. Fu uno scenario di guerra. Morirono dilaniati Borsellino con i poliziotti della sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Morì anche l’agente Emanuela Loi, prima donna a far parte di una scorta e prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio. L’unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo. Al momento dell’esplosione stava parcheggiando una delle auto della scorta.
La strage avvenne due mesi dopo quella di Capaci, sull’autostrada per Palermo, (23 maggio 1992). Gli attentatori fecero saltare in aria un tratto dell’autostrada A29 telecomandando a distanza una carica esplosiva pari a 500 chili di tritolo. Persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i 3 uomini della sua scorta: Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
I processi per via D’Amelio
Tornando al giudice Borsellino, amico e stretto collaboratore di Falcone, sono trascorsi 3 decenni dal quel 19 luglio 1992. Così come è trascorso un numero di processi di cui è difficile tenere il conto. Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a 7 ergastoli inflitti ingiustamente. Poi l’atto d’accusa contro quello che è ormai alla storia come “il depistaggio più grave della storia repubblicana“. E infine il giudizio – ancora in corso in secondo grado – a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra. Ossia il boss Matteo Messina Denaro.
I mandanti esterni e l’agenda rossa
Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno assodato senza ombra di dubbio il ruolo della mafia nell’attentato a Borsellino e agli agenti della scorta. Ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi. Dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte della famigerata agenda rossa: il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla. E così via, fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull’eccidio.
Il depistaggio delle indagini
Depistaggio che, dicono i giudici “ci fu“, ma che è rimasto senza colpevoli. Anche dopo il verdetto dello scorso giovedì, 14 luglio. Una sentenza tramite la quale i magistrati hanno dichiarato prescritte le accuse rivolte a 2 dei poliziotti che avrebbero inquinato le indagini e hanno assolto un terzo agente. Il primo processo per la morte di Paolo Borsellino si celebrò nel 1994. Alla sbarra, come esecutori materiali, Vincenzo Scarantino, piccolo contrabbandiere che si era autoaccusato; il boss Salvatore Profeta; Giuseppe Orofino – proprietario dell’officina in cui fu imbottita di tritolo la Fiat 126 usata come autobomba – e Pietro Scotto. In primo grado i giudici condannarono tutti all’ergastolo. Il solo Scarantino, pentito e accusatore degli altri, a 18 anni. In appello l’ergastolo rimase soltanto per il boss Profeta. La condanna di Orofino scese a 9 anni per favoreggiamento; Scotto fu assolto. Confermati i 18 anni a Scarantino. Le condanne divennero poi definitive.
Il processo Borsellino bis
Il processo bis, nel quale erano imputati gli uomini della Cupola e i capi mandamento di Cosa nostra, si concluse il 18 marzo del 2004 con 13 ergastoli. I magistrati condannarono al carcere a vita Totò Riina, Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia. Ergastolo anche per Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana che in primo grado erano stati invece assolti. La sentenza divenne definitiva, ma il pentimento del capomafia Gaspare Spatuzza, che denunciò il depistaggio delle prime indagini con le false accuse di Scarantino, determinò la sospensione delle pene per Profeta, Scotto, Vernengo, Gambino, La Mattina, Urso e Murana, ingiustamente accusati. Le loro condanne furono annullate al termine del giudizio di revisione celebrato a Catania.
Il processo ter
Il processo Borsellino ter si è concluso, invece, nel 2006. Inflitte condanne a vita a Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele e Domenico Ganci. Ma anche Francesco e Giuseppe Madonia, Giuseppe e Salvatore Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo Cannella, Salvatore Biondo il ‘corto’ e Salvatore Biondo il ‘lungo’. Così come Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto ‘Nitto’ Santapaola, Mariano Agate, Benedetto Spera. I due collaboratori di giustizia Antonino Giuffrè e Stefano Ganci ricevettero condanne rispettivamente a 20 e 26 anni di reclusione. Condannati anche tre pentiti: Salvatore Cancemi (18 anni e 10 mesi), Giovanni Brusca (13 anni e 10 mesi), Giovanbattista Ferrante (16 anni e 10 mesi).
I pentiti costruiti a tavolino
Il Borsellino quater, invece, è diventato definitivo l’anno scorso, nel 2021. Alla sbarra due capimafia: Salvatore Madonia e Vittorio Tutino. Per entrambi i giudici hanno stabilito l’ergastolo per strage. Condanne anche per i 3 falsi pentiti Calogero Pulci (10 anni), Francesco Andriotta (9 anni e 6 mesi) e Vincenzo Scarantino, uscito di scena per la prescrizione delle accuse. Dovevano tutti rispondere di calunnia.
Il processo sul depistaggio dalla verità sulla morte di Paolo Borsellino fu ordito attraverso la costruzione a tavolino dei falsi pentiti come Scarantino. Ed è fresco di sentenza. Alla sbarra, sempre per calunnia, ma aggravata dall’aver favorito la mafia, erano finiti tre investigatori. Facevano parte del pool che indagò sulla strage di via d’Amelio. Si tratta di Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Caduta l’aggravante, si è prescritta la calunnia per i primi due, mentre Ribaudo è stato assolto.