Finora il presidente Putin aveva resistito a indire una mobilitazione massiva delle truppe. Ma ora il leader del Cremlino ha firmato un decreto con effetto immediato: al fronte saranno chiamati 300 mila riservisti con esperienza militare e di combattimento.
Una mobilitazione parziale che non si verificava nel territorio russo dal secondo conflitto mondiale. “L’occidente vuole distruggerci” ha affermato Vladimir Putin nell’ultimo discorso alla Nazione. Nel frattempo le autorità filorusse delle zone occupate dell’Ucraina accelerano di fronte alla controffensiva delle forze di Kiev. E, spinte da Mosca, annunciano la convocazione di un referendum per l’annessione alla Russia. Non solo le autoproclamate repubbliche autonome del Donbass, Lugansk e Donetsk. Già riconosciute indipendenti dal presidente russo alla vigilia dell’invasione. Ma anche le aeree di Kherson e Zaporizhzhia, attualmente ancora sotto il controllo russo. Le consultazioni sarebbero previste rispettivamente tra il 23 e il 27 settembre.
Quest’ulteriore escalation preoccupa non poco i governi occidentali. Qualora le suddette aree dovessero essere annesse alla Federazione Russa, significherebbe che ogni attacco militare a queste zone equivarrà formalmente ad un attacco frontale alla madre Russia. Un gesto di forza dunque? O disperato? Da parte di Putin, che tenta di salvare il salvabile dopo gli scarsi risultati ottenuti finora sul campo di battaglia. Se da un lato il leader del Cremlino ha ottenuto pesanti sconfitte militari, dal lato politico le strategie e le conseguenze sullo scacchiere internazionale di questa guerra non vanno sottovalutate.
La Russia arretra in Siria mentre avanzano la Turchia e Hamas
Occupato militarmente sul fronte ucraino, Putin sta inevitabilmente indebolendo la sua presenza militare in alcuni territori che godevano della sua “ala protettiva”. E questo non sempre a favore dell’Occidente e dell’Europa. Stiamo parlando ad esempio della Siria. Dove il ritiro da parte della Russia del sistema di difesa aerea S-300 e il trasferimento di piloti e mercenari del gruppo Wagner dalla Siria all’Ucraina hanno contribuito a generare una generale sensazione di “vuoto russo”. Che sta favorendo oggi una maggiore presenza militare iraniana nel Paese mediorientale. La fonte è il quotidiano panarabo Al Sharq al Awsat, secondo il quale Teheran avrebbe approfittato della perdita di influenza della Russia in Siria, per reclutare milizie dall’est del Paese e intensificare il livello di cooperazione militare con Damasco. Non solo, a riempire il vuoto russo sul territorio ci sarebbero anche in pole position la Turchia e Hamas.
I russi starebbero facendo il possibile per trovare un accordo tra la Turchia e la Siria, con lo scopo di ritirare le proprie truppe impegnate nel Paese mediorientale e schierarle in Ucraina. Da settimane difatti una serie di dichiarazioni di esponenti istituzionali turchi e russi hanno confermato la possibilità di un disgelo tra i due paesi. Il presidente Erdogan da parte sua avrebbe alluso anche ad un riavvicinamento tra Assad e Hamas. “ll governo siriano sta riprendendo i rapporti non solo con molte nazioni arabe, ma anche col movimento palestinese Hamas”. Un quadro preoccupante dunque, che fotografa un riallineamento degli assetti istituzionali nelle “terre calde” del Mediterraneo, dove la ritirata russa nei fatti non lascia ben sperare. La rottura dell’ambivalenza tra occidente-oriente da parte di Putin non è il miglior scenario possibile per l’Europa. Che in queste aree del mondo si affaccia, e da cui ricordiamo solo pochi anni fa, l’ISIS traeva forza e potere.
Putin ed i rapporti ad Oriente: prove di un nuovo assetto globale?
Senza una via d’uscita, magari offerta dall’UE, da questo braccio di ferro, che favorisce solamente la Turchia di Erdogan, Putin inevitabilmente guarderà sempre più ad Oriente. E a soluzioni quindi sempre più lontane dalla liberal-democrazia occidentale. In questi giorni a Samarcanda, in Uzbekistan, si è tenuto il summit della Shangai Cooperation Organization (SCO). Una conferenza che riunisce otto membri permanenti (Cina, Russia, India, Pakistan, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan) e a cui, da oggi, si aggiunge l’Iran. Proprio la Repubblica Islamica che gli USA avevano cercato di cooptare negli ultimi mesi per il loro ruolo strategico nell’esportazione del greggio e del gas. Ma oggi appare guardare più verso Pechino che verso Whashington. Ma non è la sola. Trai i paesi mediorientali a guardare al vertice di Samarcanda e alla SCO con interesse e attenzione sempre maggiore vi sarebbero anche Arabia Saudita, Qatar, ed Egitto, che hanno ottenuto lo status di ‘partner di dialogo’. Ruolo a cui aspirano anche Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Siria e Iraq.
Il potenziale allargamento della SCO verso l’Asia meridionale, i paesi del Golfo e il Nord Africa, prende sempre più le sembianze di un concreto movimento verso un’“alternativa” all’ordine occidentale e alle sue regole. Putin cercherà solo di accelerarne gli sviluppi? Ad oggi la Russia non usa più il dollaro per le transazioni del greggio, bensì i rubli, gli yuan e le rupie indiane. Questo avvantaggia Cina e India nei riguardi di Washington. Comprando meno dollari nelle transazioni del greggio – da sempre monopolio USA – saranno sempre meno vulnerabili ad esempio a future potenziali sanzioni economiche occidentali. Dunque la frammentazione in atto di alcuni dei monopoli di potere USA sembra solo all’inizio. Dietro la guerra in Ucraina appare sempre più evidente che c’è molto di più che la difesa della sovranità nazionale degli invasi. E Putin seppur in difficoltà, aldilà dei risultati militari, è ancora presto per certificarlo come avviato alla sconfitta.