Laika, una maschera-riflesso della rabbia sociale: “tutti i rifugiati sono i benvenuti.”
In principio era un fenomeno locale, ma oggi è una delle attiviste più celebri di Roma e oltre
Alla Festa del Cinema di Roma Antonio Valerio Spera è entrato in punta di piedi nella vita di Laika. L’artista ha colto in profondità le tematiche di denuncia camuffando la sua stessa identità. Life is (not) a game è il documentario che le ha dedicato.
Antonio Valerio Spera ha scelto di esplorare la vita di “un’attacchina“ che, fino a pochi anni fa era nota solo nell’area romana, per poi diventare una celebrità grazie ai suoi poster e murales realizzati di notte, che danno spesso il buongiorno ai cittadini della Capitale e ‘disturbando’ le cariche di potere.
Laika è una misteriosa autrice di una serie di opere che da tre anni spuntano sui muri di Roma e che, oltre allo pseudonimo, proteggere l’identità con una maschera bianca, una parrucca rossa e un distorsore digitale della voce. Ritrae fatti d’attualità sociale e politica, icone della città e vari personaggi, inclusi gli eroi calcistici della Roma, la sua squadra. Al Festival del Cinema di Roma è anche protagonista del documentario Life is (not) a game, con tanto di Red Carpet per cui ha realizzato due opere. Un titolo che ricorda come i migranti definiscono il loro tentativo di entrare nei confini dei Paesi europei. Così pericolosi da essere paragonati ad un videogame.
In esclusiva a VelvetMAG Antonio Valerio Spera e Laika
Il regista del documentario è l’esordiente Antonio Valerio Spera professore e critico che ci spiega: “L’idea del film è partita dal personaggio Laika. Io apprezzavo le sue prime opere che aveva fatto nel 2019 e trovavo altrettanto interessante che Laika fosse anonima andando in giro mascherata. Trovavo questo personaggio cinematografico, in quanto attacchina mascherata che andava in giro di notte a fare opere illegali. E le ho proposto di iniziare a riprenderla, lei inaspettatamente ha accettato. Ma il documentario non è stato poi incentrato sulla vita di Laika, ma ha in un certo qual modo narrato quello che poi abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo tutti. Ecco che il punto di vista è cambiato. Non è diventato infatti un documentario su Laika quanto sui nostri tempi visto attraverso gli occhi di un’artista”.
Je suis pas un virus – spiega il regista – è l’opera di Laika che più lo ha colpito: “Io amo l’opera dedicata a Sonia la ristoratrice cinese. L’opera prima che scoppiasse la pandemia quando c’era la discriminazione della comunità cinese in Italia. Quella è l’opera che ha acceso un’attenzione mediatica su Laika. E poi sono molto legato alle opere che Laika ha fatto in Bosnia, principalmente quella che intitola il film. Con quell’esperienza che abbiamo fatto in Bosnia credo che Laika abbia avuto il coraggio di denunciare e a mettere l’attenzione su una questione che purtroppo ancora con la pandemia la mette in secondo piano”.
Cosa lascia Life is not a game al pubblico?
Io mi auguro che il pubblico possa uscire dalla sala con degli spunti di riflessione, discussione e che possano portare anche ad un dibattito interno e che possano interrogarsi su questi ultimi due anni su tutte le tematiche. Dalla pandemia, ma anche a tutto quello che Laika tratta, e che possano farlo anche con lo spirito di Laika che è uno spirito sarcastico, ironico. A volte spensierato che però lascia trapelare una denuncia e una rabbia sociale.
Laika e la Bosnia: un viaggio centrale nel film di Spera
Ho anche la responsabilità di portare sul Red Carpet la mia arte, ma soprattutto i miei messaggi. Senza dubbio, il film ha una tematica molto importante, non voglio dire che sia predominante, ma il viaggio in Bosnia è una parte molto centrale nel film. E in un momento come questo in cui ancora non sappiamo dove andremo in contro in termini di Governo. Il mio slogan (che urlo sempre, ma questa volta ancora di più) è quello che tutti i rifugiati sono i benvenuti.
Perché la scelta di presentare l’arte come game, gioco?
La parola game veramente tocca sia il mio aspetto personale e poi, chiaramente, la tematica centrale del film. Ma dietro alla mia arte è cresciuta la voglia di far luce su determinate tematiche, come i diritti umani, civili e sociali. Questo è il riassunto di quello che faccio. Ho una coscienza politica molto consapevole.
Prima della Bosnia, Roma è stata una “galleria a cielo aperto”
Sono andata in Bosnia per una mia esigenza, per andare a vedere e a parlare con la gente che stava vivendo quella tematica. Soprattutto ero alla ricerca della giusta cornice, una cosa che faccio sempre. Fino a poco tempo fa era stata Roma la mia galleria a cielo aperto.
Era necessario dunque andare lì, e non sporcarsi solo di colla. Ascoltare con le mie orecchie determinate storie e metterle su carta e raccontare a mia volta quello che avevo vissuto in quell’esperienza. Sono tornata molto più consapevole del fatto di essere dalla parte giusta. L’importante è parlarne, fare luce e aiutare queste persone. Possiamo fare tutti i discorsi di strategia politica, legittimi più o meno, ma c’è una priorità, che è l’essere umano. Gli Stati dell’Unione Europea devono tener conto di questo, cosa che in quel luogo alle porte dell’Europa viene meno. Se devo pensare invece ai ricordi, ancora c’ho nella testa il rumore delle infradito nella neve di alcuni ragazzi che non erano riusciti a farsi ancora delle scarpe. E’ un rumore innaturale”.
Cosa rappresenta la tua maschera?
“E’ un filtro che mi porta ad essere più diretta. Per avere la possibilità di preservare la mia vita di tutti i giorni. Ho una vita normale anche io. Dietro Laika c’è un lavoro, uno studio. E’ un volto neutro sul quale puoi immaginare tutto o niente a tal punto che perde quasi importanza. Quasi come se sia influente il mio volto. Ciò che è importante è il mio messaggio che lascio sui muri. La mia immagine non ti lascia entrare in quello che è l’aspetto personale perché non è rilevante. Sono gli abiti che lascio a casa. Ormai, la transizione è più o meno avvenuta. Senza dubbio parliamo di un alter ego e ora che ci penso, tutt’ora ho un dialogo tra me e me. E’ un dialogo interno e sono due parti del mio essere che dialogando si aiutano anche. Ne traggo beneficio, senza dubbio, ma non è semplice essere questo e fare quest’attività. Ogni volta che mi muovo è una pratica”.