Mentre i riflettori mediatici di tutto il mondo sono puntati sull’Iran e sulla guerra in Ucraina, sta passando quasi del tutto inosservata un’altra questione che oggi sta drammaticamente degenerando: l’annoso conflitto arabo-palestinese. Dove l’ultima relazione di Amnesty International parla dell’esistenza di un “regime di Apartheid” contro la popolazione palestinese che ormai “vive in un carcere all’aria aperta”.
Nelle ultime ore la situazione si è incendiata a seguito del raid aereo delle forze armate israeliane a Nablus, che ha ucciso 11 palestinesi. I segnali ed i presupposti attualmente di una nuova pericolosa Intifada secondo gli esperti sono evidenti. Ed i primi passi del neo-governo Netaniayu di estrema destra, non lasciano affatto ben sperare la comunità internazionale. Le riforme che si appresta a varare in tema di giustizia allontanano la legge in Israele dallo Stato Diritto, aumentando i rischi di escalation nella regione.
L’approccio di Israele nel territorio palestinese
Da decenni lo Stato di Israele si espande via via oltre i confini prestabiliti nel 1967, appropriandosi di fette di territorio palestinese in Cisgiordania. Con una dichiarazione approvata all’unanimità il 20 febbraio, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha espresso difatti “profonda preoccupazione e sgomento” nei riguardi dell’atteggiamento del governo israeliano. Il 14 febbraio ha concesso l’autorizzazione retroattiva ad altri nove avamposti di coloni ebrei nella Cisgiordania occupata e ha annunciato la costruzione in massa di nuove unità di abitazioni all’interno degli insediamenti già esistenti. I ministri degli Esteri di Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti hanno prontamente espresso la loro contrarietà. Ma il presidente Netaniayu non ha alcuna intenzione di ammorbidire la propria linea, anzi, i primi provvedimenti e le riforme della giustizia annunciate, rafforzeranno ancora di più l’azione del suo governo.
Il 16 febbraio la Knesset (il parlamento israeliano, n. d. r.) con una maggioranza di 94 voti favorevoli e 10 contrari, ha approvato una legge che renderà più facile per le autorità israeliane la revoca della cittadinanza e della residenza ai palestinesi imprigionati per “atti di terrore”. Ma la svolta del governo più drammatica, riguarderebbe il riassetto della giustizia per la quale spinge Netanyahu, che sostanzialmente punta ad indebolire la Corte Suprema del Paese, a favore di maggiori poteri per la coalizione di governo. Che potrebbe avere il potere addirittura di annullare le sentenze della Corte (al momento come molti nel Paese il presidente è indagato per corruzione) a maggioranza semplice. Una svolta decisamente autoritaria, che recentemente ha incontrato il primo sì dei tre step necessari, in parlamento, per la definitiva approvazione. Ma mentre si rafforza il raggio d’azione del governo israeliano, sotto quale regime vivono oggi i palestinesi?
Le condizioni in cui vive oggi il popolo palestinese
Tina Marinari, la coordinatrice delle campagne di Amnesty International Italia, ha denunciato come “la situazione a Gaza sia catastrofica da anni, la popolazione resiste, sopravvive, ma Gaza non è l’unica prigione a cielo aperto. Arresti e detenzioni arbitrarie si consumano in tutto il territorio palestinese, ormai ridotto in un regime di carceralità”. I villaggi palestinesi difatti in alcune aree sono molto spesso circondati dagli insediamenti israeliani illegali, dove le strade d’ingresso sono costellate da posti di blocco stradali dell’esercito israeliano. I contadini palestinesi devono coltivare la terra ogni giorno, altrimenti, secondo la legge, passa di proprietà al governo israeliano. A tutto questo si aggiunge il fatto che gli abitanti palestinesi non possono costruire niente, né ricostruire le case già esistenti. Se solo ci provano, arriva subito l’esercito israeliano a demolire tutto.
Molte delle nuove generazioni, non potendo avere il permesso militare israeliano di costruire una casa, sono costretti a emigrare e abbandonare la loro terra. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, ha sottolineato nel primo rapporto divulgato all’Assemblea Generale Onu lo scorso fine ottobre come “l’occupazione metta in pericolo l’esistenza culturale del popolo palestinese e viola la capacità dei palestinesi di organizzarsi come popolo, reprimendo l’attività politica, la difesa e qualsiasi forma di attivismo e dissenso”. Concludendo poi riguardo il conflitto che “questo non è un conflitto tra due popoli, tra due Stati. Ma è una situazione di occupazione militare, fatta di segregazione, politiche discriminatorie, che fa del male anche a chi questa discriminazione la pratica”.
Lo scontro tra David e Golia
La vicenda Israelo-Palestinese come ben noto, va avanti ormai da decenni. La risoluzione che prevede, per la pace nell’area, la realizzazione di due Stati separati, ha sempre incontrato innumerevoli ostacoli. Tuttavia nel 2012 lo Stato di Palestina è stato ufficialmente riconosciuto al livello legale con una risoluzione dall’Assemblea generale dell’ONU. Alcuni Paesi però, tra cui l’Italia e la Francia, ne riconoscono uno statuto speciale ma non una “piena” sovranità. Eppure oggi dovremmo interrogarci tra chi sia davvero David, e chi Golia. Soprattutto alla luce delle numerose risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza che invitano Israele a porre fine alla sua politica di insediamenti nei territori palestinesi. Che finiscono puntualmente nei fatti per essere inascoltate.