I salari in Italia sono fermi al palo da decenni e adesso il Rapporto Svimez (Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno) fornisce stime scoraggianti sulle retribuzioni dei lavoratori. Sono infatti circa 3 milioni i dipendenti al di sotto dei 9 euro di retribuzione oraria in Italia. In molti casi, soprattutto ai giovani in cerca di lavoro, imprenditori del settore della ristorazione offrono paghe da 4 euro l’ora.
Circa un milione di lavoratori sui 3 sottopagati vivono nel Mezzogiorno, dove la loro quota raggiunge il 25,1% degli occupati dipendenti. Vale a dire oltre 1 su quattro. Circa 2 milioni di altri lavoratori vivono nelle regioni del Centro-Nord dove rappresentano il 15,9% degli occupati dipendenti.
Salari e potere d’acquisto
Si assiste inoltre, in questi mesi, all’erosione sempre più forte dei salari a causa della crescita dell’indice dei prezzi al consumo, cioè dell’inflazione. Anche la perdita di potere d’acquisto, così come la caduta dei salari, interessa soprattutto il Mezzogiorno. Al Sud la perdita di potere d’acquisto è pari al -8,4%, contro un valore medio nazionale del -7,5%.
Tutti valori ampiamente, e tristemente, peggiori della media dei paesi Ocse (38 Stati di varie regioni del mondo), che si attesta al -2,2%. Questa dinamica si colloca all’interno di una tendenza di medio periodo particolarmente sfavorevole per il Sud Italia. Le retribuzioni lorde reali mostrano una tendenza sostanzialmente stagnante nel Centro-Nord tra il 2008 e il 2019 e in significativo calo proprio al Sud. Nel 2022 i salari lordi in termini reali sono di 3 punti più bassi nel Centro-Nord rispetto al 2008; nel Mezzogiorno di ben 12 punti più bassi.
L’associazione Svimez stima una crescita del Prodotto interno lordo italiano (Pil) del +1,1% nel 2023, con una crescita al Mezzogiorno (+0,9%) di soli tre decimi di punto percentuale in meno rispetto al Centro-Nord (+1,2%), nelle anticipazioni del rapporto 2023. Ma queste previsioni si basano sull’ipotesi di un utilizzo parziale delle risorse del PNRR.
Il PNRR, una chimera?
Tuttavia sulla cosiddetta ‘messa a terra’ del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che usufruisce dei prestiti e dei crediti a fondo perduto che arrivano dal Recovery plan dell’Unione europea, varato in occasione della pandemia di Covid, l’Italia sta paurosamente arrancando. Siamo il paese dell’Unione che da solo vale il 30% del Pil di tutta Europa ma abbiamo salari che non crescono da 30 anni e rischiamo di non riuscire a spendere correttamente i circa 200 miliardi di euro del Recovery a noi destinati.
Nessun altro paese, neppure la Germania e la Francia, riceverà così tanti denari da Bruxelles. Ma per vedersi assegnate la nuove tranche di finanziamenti occorre fare riforme epocali. Dalla libera concorrenza anche per taxi e stabilimenti balneari alla riforma della giustizia. E dalla transizione ecologica dell’industria all’ammodernamento delle scuole e delle case, secondo criteri di sostenibilità
Il Governo Meloni è in difficoltà sul PNRR: sta cercando di trattare una ridiscussione delle clausole perché ritiene che sia pressoché impossibile investire 200 miliardi in Italia. Ci sarebbero troppe difficoltà burocratico-amministrative per rilasciare permessi, selezionare aziende e beneficiari. Insomma, una prospettiva scoraggiante.
Divario Nord-Sud
Ma in ogni caso, ipotizzando la piena efficienza del piano, il Pil del Sud potrebbe far segnare già nel 2023 una crescita superiore di circa 5 decimi (fino all’1,4%) e di circa 4 decimi nel Centro-Nord. In seguito, il contributo aggiuntivo del PNRR tenderebbe ad aumentare più al Sud, fino a chiudere il divario di crescita con il Nord nel 2025. Non è chiaro se tutto ciò potrà avere una ripercussione positiva sui salari. Di certo, secondo Svimez, un’ulteriore stretta monetaria della Bce (la Banca centrale europea) nel corso del 2023 avrebbe effetti recessivi più intensi al Sud rispetto al Centro-Nord. Ma nei primi giorni di luglio il governatore uscente della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha messo in guardia la presidente della Bce, Christine Lagarde, che una nuova, già prevista, stretta sui tassi d’interesse, non fa necessariamente bene all’economia.