Chiara Rapaccini: “Mio amato Belzebù: non è un libro sull’amore tra me e Monicelli”
No, non c'è romanticismo, bensì la storia di una ragazza, oggi artista, illustratrice RAP, che ha scelto di restare fedele a se stessa
Mio amato Belzebù: l’amara dolce vita con Monicelli e compagnia: titolo ed (eloquente, n.d.r.) sottotitolo del libro di Chiara Rapaccini, compagna per oltre trent’anni del grande regista. Ma lei oggi è anche e soprattutto un’artista, che ci rende come in un affresco il suo racconto personale, della sua intensa vita personale e professionale.
Lo dice chiaro: “Questo non è un libro sulla storia d’amore con Mario Monicelli“. E potremmo aggiungere neanche sulle gesta del cineasta. Qui, parliamo di un volume dove il vissuto dell’artista e dell’illustratrice Chiara Rapaccini si evidenzia. “E’ la storia di una donna” sottolinea l’autrice durante la nostra intervista: questo quello che vuole raccontare.
Intervista esclusiva di Chiara Rapaccini a VelvetMAG
Se dovessimo riassumere con un virgolettato cosa l’ha spinta a scrivere questo libro, quale sarebbe la sua risposta?
Volevo raccontare la storia di una ragazza – che sono io – e che a vent’anni ha lasciato la provincia, Firenze. Una giovane che voleva fare l’artista e che da Firenze ha raggiunto poi Roma. Ha incontrato Monicelli a livelli molto alti e che aveva 40 anni meno di un gruppo di persone, a cominciare proprio dal regista. In questo libro, si racconta di cosa succede quando una ragazza molto timida, arriva in mezzo ai mostri sacri di quel momento, mondiali del cinema.
Lei scrive, che il suo esser stata ‘trasportata’ da Firenze a Roma l’ha vissuta come una “guerra barbarica”. Alle spalle una città tranquilla, e l’improvviso arrivo in una metropoli caotica, capitale del cinema al tempo, non solo italiano. Se tutto fosse successo ad un’età diversa, avrebbe scelto delle direzioni differenti? Sarebbe arrivata nel mondo dell’arte in un modo diverso?
Forse sì! Il mio racconto sottolinea quanto io fossi giovanissima! A quell’età ho lasciato la mia famiglia, i miei amici, il mio lavoro andando in un’altra città a diciannove/vent’anni, un’età in cui non si è in grado di capire dove si sta andando. Se io avessi avuto quarant’anni o trenta, tutta questa mia storia incredibile, rocambolesca, avventurosa, sarebbe stata vissuta con molta più tranquillità e sicurezza. Non ho mai voluto fare cinema. Non ho mai fatto cinema e forse, sono uno dei pochi esempi che si innamora, segue, sta con uno dei più grandi registi italiani, europei – qualcuno dice anche “del mondo” – ma sono comunque rimasta fedele al mio lavoro, cosa che era molto difficile: non cadere nelle loro grinfie.
Nel suo libro ha chiamato Monicelli “Belzebù”. Come mai?
Belzebù è un nome aramaico, bellissimo che indica il diavolo. Mi piace per il suo potere onomatopeico, come semplice cadenza. E’ un modo anche molto ironico di poter parlare di questa persona che era adorabile, ma anche diabolica, come lo erano tutti di quel gruppo: scafati, ironici, beffardi. Belzebù è dunque il diavolo, quel serpente che propone la mela ad Eva e quest’ultima gli va incontro lasciando quel paradiso terrestre, sì, piacevole anche, ma forse un po’ noioso: come io mi toglievo da Firenze, un po’ troppo silenziosa.
Pagina dopo pagina ho notato una forte presenza del linguaggio iperbolico e altrettanto diretto. Penso, che se nei film di Monicelli si raccontava la realtà, nella sua scrittura Chiara, trasuda una pungente verità.
Sì, è vero! Le commedie erano super-realiste. Vedevo i loro film ed erano molto attaccati alla realtà. Questo modo di raccontare me l’hanno indubbiamente tramandato. Scrivere un libro è interessante se si sa essere sinceri, non mentire mai. Il mio libro è molto, molto sincero.
Il suo primo incontro con Mario Monicelli non è stato né idilliaco, né “tranquillo”. Eravate sul set con Tognazzi, Del Prete e come scrive nel suo libro un “certo Vanzina come aiuto regista”.
Ero una comparsa pagata dal Teatro comunale di Firenze. Che fosse Monicelli o altri, noi ragazzi non sapevamo niente. Io ero una comparsa che faceva la passante molto colpita dalle reazioni che ebbe questo regista (n.d.r. Monicelli) molto violente, ai miei occhi esageratamente aggressivo nei confronti di uno stunt-man che cercava di non prendere gli schiaffi sul treno dati dagli attori. Si tirava indietro e Mario, come anche Vanzina, si arrabbiarono trattandolo così male! Era il cinema. Era la prima volta che vedevo il cinema: una cornice molto aggressiva. Ero lì, di passaggio e pensai che questo regista fosse un essere orrendo.
Quando tutto questo si trasformò in amore con Mario Monicelli?
Il libro non parla di questo aspetto, anzi è l’anti-romanticismo.
Allora è una mia curiosità e, probabilmente, anche dei lettori di VelvetMAG (ride, n.d.r)…
Ci siamo frequentati e piaciuti. Ci fu una prima cena a Firenze e anche una passeggiata sulle colline della città in cui non c’è stato niente di romantico, di banale. Ma erano, eravamo, due persone che si studiavano. Molto attratte l’una dall’altra per motivi non erotici quanto invece celebrali. Ricordo che in quel periodo del set, io ero a Firenze a fare una manifestazione e lui che girava nel frattempo. E’ passato proprio di lì. Mi prese in giro mentre io urlavo con le mie compagne: “L’utero è mio lo gestisco io. […] Io sono mia”. Questi erano i nostri slogan femministi. Monicelli mi domando: “Ma lei signorina, è sicura di riuscire a smarcarsi da noi maschi?” Io mi arrabbiai molto da quel suo parlarmi con quel tono, ma già lì mi piacque, perché era un provocatore.
Monicelli: un uomo difficile. Addirittura racconta che inizialmente la chiamava con dei soprannomi non molto piacevoli, ma che poi nel vostro quotidiano, diventarono anche simpatici, un richiamo – credo – all’intimità. Lo potrebbe definire: uomo maschilista?
Sì, assolutamente! Lui e tutto il gruppo. D’altronde, era una generazione di maschi maschilisti tant’è che il patriarcato ne faceva parte. Quindi sì, anche se ha fatto un film Speriamo che sia femmina (n.d.r. dramma/commedia 1986) molto dalla parte delle donne. E devo dire anche dalla mia: lui stava non con un’attrice, ma con una studentessa di arte.
Devo sottolineare che questo libro non è sull’amore tra me e Monicelli, ma un affresco di quello che succedeva nella mia vita. Lo volevo rimarcare perché forse, il titolo (Mio amato Belzebù. L’amara Dolce vita con Monicelli, n.d.r.) lo mette in dubbio. E’ la storia di una ragazza che fa tante cose, che studia e che è anche politicamente molto impegnata e che finisce a Roma con una serie di persone e con Monicelli. E’ la storia di una donna.
Leggendo, si ha la sensazione di osservare una serie di diapositive nelle quali prende coscienza e forse trascrive anche la sua percezione, che è mutata nel tempo e che è – dunque – cambiata mettendo a confronto il Rinascimento di Firenze – quello “antipatico”, preferendo Campigli a Botticelli – a Roma, che lei ha poi preferito.
La mia antipatia per il Rinascimento l’ho avuta sempre, fin dagli 8 anni. A me piaceva per esempio la pittura rupestre o la pittura del ‘900. L’arrivo a Roma ha aperto il mio amore per l’arte, per la storia e per la pittura. A Roma c’era il Barocco e non solo questa gabbia che è il Rinascimento. Poi era sgangherata, enorme, con una rappresentazione di tutti i periodi artistici. Roma, è una città storta, messa su piani diversi, con prospettive meravigliose. Il colmo dell’armonia, del punto di fuga. Cosa si mette in rilievo nel libro? L’avventura a cui si è trovata questa ragazza ribelle.
Uno dei viaggi più folli che ha fatto con Mario Monicelli nel quale si è sentita libera di essere ribelle?
I primi viaggi mai: sempre sottomessa, impaurita, terrorizzata. Non sapevo come descrivermi in mezzo a tutti quei mostri del cinema come Mastroianni. Addirittura mi vestivo sbagliata a differenza di quando stavo a Firenze. Allora, avevo un’identità hippy e sapevo benissimo come andare in giro. Una volta arrivata a Roma non LO sapevo più, anche perché erano tutti più vecchi di me. Anche le donne: bellissime, scicchissime. Ho cominciato a sentirmi libera nei viaggi molto dopo. Si andava in India, in Cina, a Buenos Aires. Ero semplicemente più grande e potevo godermi i viaggi. Non avevo più paura di aprire bocca e non sapere che accidenti dire. Avevo imparato a vestirmi, a parlare, a esser cosciente di me, in quanto ero una ragazza molto intelligente. Non ero stupida, ero solo tremendamente intimidita.
Gioia e fatica: possiamo definire così il vivere accanto a Mario Monicelli, esattamente come i colori primari di Chiara Rapaccini?
Ma probabilmente io sono piaciuta a lui, come anche ad altri della sua combriccola del cinema romano, perché avevo questa personalità. Non so se facesse fatica, perché era più scafato di me. Lui aveva avuto tante donne, conoscenze, per cui tutta questa fatica a star con me…
Forse poteva aver paura di perdermi! Non ci pensavo allora, ma ero talmente giovane e carina – non ero bellissima a confronto delle attrici che aveva frequentato come la Cardinale, Bardot. Forse, ma non me lo sono mai domandata, poteva avere il terrore che avendo io allora vent’anni e lui sessanta, potevo ‘darmela a gambe’. Non lo so, è un’ipotesi che faccio.
Mario Monicelli decide di mettere fine alla sua vita col suicidio.
Io e la famiglia di Monicelli abbiamo rispettato una scelta fatta con la massima lucidità. Non perché era malato o depresso, ma perché come ha scelto di vivere ha scelto di morire. E’ falsa la notizia che Mario Monicelli si sia suicidato perché malato di tumore e dunque disperato. E’ falsa! Ha deciso di finire la sua vita così come suo padre, suicida anche lui, ma a differenza di Monicelli, il padre, per motivi politici. E’ una scelta che fa l’individuo.
Lei, una donna che ha riconquistato la sua libertà, un diritto che ancora oggi non appartiene a tutto il nostro genere.
Continuiamo a lottare per l’indipendenza. Adesso lo siamo molto di più! Ma non lo saremo mai finché non avremo una lira più in confronto agli uomini. Il potere maschile, oggi, è un potere economico. Le donne guadagnano un terzo di meno. Ma sono proprio loro che devono esser coscienti di sé, ed io sono stata un esempio non di femminismo, però di una che si è salvata la vita in un mondo affascinante, ma patriarcale perché sono sempre stata fedele a me stessa.