Francesco Russo, tra palco e macchina da presa: “cerco di portare me stesso e la mia creatività”
Il giovane attore, impegnato in numerosi progetti, si racconta con estrema sincerità in un'intervista esclusiva a VelvetMAG
Nel mondo dello spettacolo italiano, Francesco Russo sta rapidamente emergendo come una delle figure più promettenti e ricercate. Con la sua creatività inesauribile e il suo talento innato, infatti, si sta guadagnando un posto di rilievo tra gli attori più richiesti del momento, conquistando il pubblico con ogni nuova interpretazione.
Noi della redazione VelvetMAG abbiamo avuto il piacere di incontrare Francesco Russo per conoscere meglio non solo i numerosi progetti che lo coinvolgono attualmente, ma anche per approfondire aspetti più intimi della sua personalità al di là del mondo della recitazione, sebbene quest’ultima, come lui stesso ci ha raccontato, rimanga pur sempre parte integrante e fondamentale della sua vita: “ho sempre detto ai miei genitori ‘voglio fare l’attore’ e avevo solo cinque anni”.
Francesco Russo ha di recente fatto parte del cast anche della seconda stagione di Call My Agent Italia su Sky, vestendo i panni del simpatico assistente Pierpaolo. In questo momento è sul grande schermo con Eravamo Bambini, il nuovo film diretto da Marco Martani, e sul palco del Teatro India di Roma con lo spettacolo Giunsero i Terrestri su Marte, diretto da Giacomo Bisordi, in scena dal 9 al 21 aprile. Inoltre, presto lo vedremo nella miniserie Sky Original M. Il Figlio del Secolo, del regista Joe Wright, tratta dal romanzo di Andrea Scurati, dove interpreterà Cesare Rossi, secondo nome del progetto dietro quello del Mussolini, interpretato da Luca Marinelli.
Intervista Francesco Russo su VelvetMAG: i primi passi nel mondo della recitazione
Come hai iniziato a interessarti alla recitazione?
Avevo cinque anni. Mia sorella era amica di uno scenografo di una compagnia amatoriale che aveva bisogno di un bambino per dire alcune battute per una famosa commedia napoletana, Miseria e nobiltà. Il bambino è Peppiniello e la battuta “Vincenzo m’è pate a me“ è quella che hanno recitato un po’ tutti i figli d’arte, il figlio di De Filippo, lo stesso De Filippo da piccolo. È la commedia che ha scritto Eduardo Scarpetta per far esordire il figlio a otto anni.
Quindi a cinque anni mi ritrovai a dire questa battuta e da allora dentro di me, ma anche fuori, ho sempre detto ai miei genitori “io voglio fare l’attore“. E in effetti un po’ lo facevo, nel senso che durante le elementari mi piaceva partecipare a tutti i progetti teatrali, imparare poesie a memoria, recitare. Che poi da bambino non sapevo davvero cosa significasse recitare. Ho continuato con gli amatoriali, quelli più adulti con loro mi divertivo anche a improvvisare. Quindi facevo cose che appartenevano alla sfera della recitazione senza accorgermene oppure dentro di me sapendolo.
Dal palcoscenico alla macchina da presa
Cosa ti ha spinto a continuare e a trasformare questa tua passione in carriera?
Ho continuato a recitare e mi sono appassionato a tante cose sempre inerenti alla sfera della recitazione: al liceo organizzavo dei reading di poesia dove mi imparavo a memoria su Wikipedia le biografie dei poeti e facevo finta di dirle a braccio. A 15 anni mi capitò un’esperienza alla prima professionale feci un piccolo spettacolo di cabaret con Gianfranco D’Angelo e Nina Moric, dove interpretavo un personaggio che veniva dal pubblico che chiedeva un autografo a Nina Moric. Pur non essendo figlio di artisti i mei genitori mi hanno sempre appoggiato e accompagnato ai provini. A 19 anni sono entrato in accademia alla Silvio D’Amico, ho fatto tre anni lì. E poi lì è successo che grazie a diversi casting ho iniziato con l’audio-visivo e da allora, avevo 22 anni adesso ne ho 31, mi divido un po’ tra palco e macchina da presa.
Come ho trasformato la mia passione in carriera? Nulla di più del fatto che durante l’accademia c’era uno spettacolo dove una sera recitavo io, un’altra sera un mio collega. Interpretavamo lo stesso personaggio. Chi non recitava doveva spostare sedie, staccare i biglietti al pubblico all’ingresso e fare i cambi scena. La sera che io facevo i cambi scena venne una casting director, Valeria Miranda, e mi fece fare un provino. Quello che aveva visto era io che spostavo le sedie – scherza – e da allora ho iniziato a fare l’attore anche in televisione.
Flessibilità e creatività per affrontare le numerose variazioni di ruolo e genere
Come affronti la sfida di interpretare sempre ruoli diversi in vari generi e come lavori per adattarti ad essi?
Io mi adatto al tipo di progetto, cerco di non essere dogmatico sul mio lavoro. Mi lascio guidare anche dal regista. Ci sono progetti che prevedono un grande lavoro sul testo altri che riguardano una trasformazione fisica o linguistica del personaggio. Ogni tanto mi è capitato di lavorare in vari dialetti diversi dal mio. Ci sono lavori che prevedono una totale aderenza sentimentale al personaggio. Ad esempio, ne L’amica geniale c’è stato un lavoro esclusivamente basato su un aderire a dei sentimenti che già c’erano su carta e invece in altri lavori i sentimenti sono più nascosti tra le battute. In questo caso bisogna andarli a scovare. Ci sono i lavori storici, la serie di Mussolini, ad esempio, dove ho lavorato sulle fotografie d’epoca per capire quali erano gli atteggiamenti veri e non quelli che posso immaginare adesso che erano.
A teatro anche ci sono dei progetti che devono essere più dei classici, ma magari capire drammaturgicamente come arrivare al pubblico contemporaneo senza fare i cialtroni. Ci sono progetti che, invece, si basano, come quello in cui sono impegnato adesso, sull’improvvisazione in cui il testo si è scritto durante le prove. Insomma, cerco di essere il meno dogmatico possibile. E questo mi dà molta libertà, ma soprattutto mi rinfresca il cervello, così non diventa la solita routine in cui si devono fare sempre le stesse cose e ogni progetto diventa un’esperienza diversa.
Dietro le quinte di Call my agent Italia 2: com’è andata sul set?
Call my agent era un progetto che mi interessava fare, io ho visto la serie francese che mi è piaciuta molto. È stato bello arrivare sul set perché c’è un gruppo di colleghi meravigliosi. Siamo tutti affiatatissimi, ragioniamo, quasi come una compagnia teatrale, dove il problema di uno diventa un problema di tutti. È stato veramente divertente anche se è un lavoro molto complesso perché si girano tante scene in modo parecchio veloce. È come uno strumento di un’orchestra ogni personaggio e quindi sa quando mettere il suo suono nella scena. C’è stata una troupe disponibilissima. Quest’anno io ho dovuto avere una parrucca e nessuno se ne è reso conto perché per un progetto precedente ho dovuto rasare completamente i capelli.
Nella serie interpreti l’assistente dell’agenzia, Pierpaolo, che spinto da un incoraggiamento di Muccino… nel tuo percorso professionale, c’è stato qualcuno che ti ha dato consigli costruttivi su come affrontare la tua carriera di attore?
Tantissimi. Chiunque ho incontrato mi ha lasciato qualcosa. Non, però, perché sono stati loro a dirmi qualcosa, ma perché sono stato io che ho preso qualcosa da loro vedendoli a lavoro. Non c’è stato mai qualcuno che mi ha detto “devi fare questo e non questo” oppure se me l’ha detto io me lo sono fatto entrare da un orecchio e uscire dall’altro perché non credo né nei maestri né negli allievi. Sicuramente ho imparato vedendo all’opera molti attori, registi. Ho captato dei tipi di professionalità diversi.
Anna Marchesini in accademia al secondo anno ci fece fare un lavoro dove ognuno doveva scriversi un monologo, ma noi facevamo recitazione e quindi c’era della refrattarietà da parte di alcuni miei compagni di classe. Lei, però, ci disse quando ha iniziato era molto rifiutata. Voleva fare l’attrice di teatro del tipo di teatro di Ferrari, Tino Buazzelli, allievi di Orazio Costa, ma è sempre stata molto rifiutata. Quindi per farlo si è dovuta da sola reinventare il lavoro, questo è stato un grandissimo insegnamento ovvero “il lavoro ve lo dovete creare anche voi“.
Francesco Russo è al cinema con Eravamo Bambini e presto sbarcherà sul piccolo schermo come coprotagonista di M. il figlio del secolo
In questo momento sei al cinema con il film Eravamo bambini di Marco Martani che racconta la storia di alcuni ex bambini dal passato difficile. Com’è stata invece la tua infanzia?
Facevo l’attore stavo una bomba. Era un bambino serenissimo giocavo da solo con i giocattoli inventandomi storie e adesso gioco da solo con me stesso. Una volta quando era bambino e giocavo da solo c’erano i miei genitori che dicevano “che bello un bambino tranquillo” adesso che mi isolo lo stesso per giocare da solo, ad esempio, leggere dicono “mamma mia che palle questo”.
Il tuo ruolo come Cesare Rossi nella miniserie M. il figlio del secolo porta con sé un’importante responsabilità, essendo il secondo nome del progetto dopo il Mussolini interpretato da Luca Marinelli. Hai sentito questo peso aggiuntivo e come vedi questa opportunità nel contesto della tua carriera?
Un progetto che sicuramente mi è piaciuto tanto fare e devo dire che il regista Joe Wright mi ha preso per mano e mi ha fatto sentire subito a mio agio, non come un pesce fuor d’acqua. Come un collega avevo la possibilità di dire la mia. Si provavano le scene con grande professionalità ed è stato bellissimo anche lavorare con Luca Marinelli, attore di grandissimo impatto. Non ho sentito un peso aggiuntivo perché avevo lavorato tanto. Avevo un dialetto diverso, un personaggio particolare. Sono stato tre, quattro mesi a studiare quindi avevo chiara la direzione. Ho fatto delle scelte nel racconto del personaggio e me ne prendo la responsabilità.
Ritorno sul palcoscenico con lo spettacolo Giunsero i terrestri su Marte
Attualmente sei impegnato con la spettacolo Giunsero i terrestri su Marte al Teatro India di Roma in scena fino al 21 aprile. Cosa ti spinge a tornare sul palcoscenico?
Ci devo tornare ogni tanto altrimenti muoio e poi Giacomo Bisordi lo trovo uno dei migliori registi che girano in Italia, ma soprattutto uno dei più innovatori. Quindi quando mi ha chiamato, io senza sapere nulla sono andato. È uno spettacolo molto particolare, non è intrattenimento, non è consolatorio. È uno spettacolo pieno di silenzi, di giochi, quasi installazione artistica performance. Io sono contentissimo di fare un mestiere che è veramente catartico per me. Vedere come reagisce il pubblico in modi totalmente differenti.
Come confronti questa esperienza con quella del cinema e della televisione?
A teatro c’è un processo di prove e poi si arriva allo spettacolo. Al cinema ci sono le prove poi si gira, poi di nuovo prove e si rigira è tutto un po’ mischiato. C’è proprio una questione di forma che è diversa. Anche se la recitazione che io porto, il mio modo di recitare è sempre lo stesso. Io cerco di portare sia me stesso sia la mia creatività che poi mi porta a uscire da me stesso. Queste sono cose che cerco sempre di portare sia al cinema che a teatro affidandomi poi al gusto, all’occhio all’esperienza del regista.
Qual è la tua opinione sullo stato attuale del teatro e del suo impatto sulla cultura di oggi?
C’è uno stato culturale molto conservatore. Nel senso che molti spettacoli che vengono proposti sono spettacoli di tradizione. Sicuramente ci sono delle ottime proposte dal punto di vista culturale, ma dal mio punto di vista il paesaggio culturale è molto desolato. È una desolazione perché quelli che si propongono come nuova cultura appartengono a nicchie e se lo vedono tra di loro.
C’è un ruolo o un progetto nel quale speri di poter lavorare in futuro?
A me piacerebbe lavorare con gente con cui ho già lavorato perché significherebbe che ho lavorato bene con loro e quindi si potrebbero mettere dei tasselli in più e andare avanti.