Nel presentare la sua ultima opera letteraria al Salone del Libro di Torino 2024, il professor Giovanni Stanghellini, psichiatra e psicoterapeuta, fondatore della Scuola di Psicoterapia Fenomenologico-Dinamica di Firenze, ha spiegato di aver scritto ‘Alle cose stesse – monologhi sulle forme del corpo e dello spazio’ (Quodlibet 2024) per “passare dall’altra parte della scrivania”.
Insomma, dall’altra parte della barricata. Al fine di abbatterla. La scrivania-barriera fisica, ma anche immaginaria, che spesso divide, pur facendoli stare vicini, lo psicoterapeuta e il suo paziente, creando una relazione di fatto gerarchica. Se la classica psicoanalisi freudiana colloca il paziente sul lettino e lo psicoterapeuta alle sue spalle, facente funzione di quasi silente specchio dell’anima di colui che soffre, affinché veda meglio il Sé di se stesso, Stanghellini porta alle estreme conseguenze la sua idea di psicoterapia dialogica. Anche sul piano poetico e letterario, come avviene in Alle cose stesse. Si veste del Sé dell’Altro. Ne prende intimamente le parti, lo fa suo, ne porta le ferite quasi ferendosi volutamente per provare ciò che prova l’Altro. Di più: egli sembra quasi volersi annullare per essere l’Altro.
Presenze del cuore e della mente
I monologhi di questo secondo volume della sua trilogia sulla Clinica dell’Informe “sono presenze che mi sgorgano dal cuore” scrive l’autore nel Prologo. “Passano per l’aria come la traccia di un pipistrello fende la porcellana della sera“. “Abbiamo dunque un teatrino interno” scriveva invece il padre della psicoanalisi italiana, Cesare Musatti, ne Il pensiero dialogato (1988). “E se riusciamo a superare il preconcetto di una persistente unità dell’Io e a vedere effettivamente tutto quello che avviene in noi stessi, siamo, e restiamo perpetuamente a teatro“.
Ecco: Stanghellini non vuole restare a teatro. Non vuole fare lo spettatore, sia pure coinvolto in qualità di terapeuta, nella vita dell’Altro. Vuole di più. Sebbene affermi di aver “sempre saputo, e con nostalgia e desiderio di essere altrimenti, di essere uno spettatore“. Nel chiamare a sua difesa il grande poeta Rainer Maria Rilke – che in Alle cose stesse è per Stanghellini come Virgilio per Dante, assieme al filosofo Walter Benjamin – ne cita un passo folgorante dell’Ottava Elegia. “Noi non abbiamo mai dinanzi a noi, neanche per un giorno, lo spazio puro dove sbocciano i fiori a non finire“.
Stanghellini in 7 monologhi
E tuttavia, senza farsi sommergere da una profonda vena elegiaca che pure impregna la sua ultima fatica poetico-letteraria, Stanghellini mostra un notevole coraggio. Che gli fa compiere un viaggio al cuore delle cose stesse. O se vogliamo un viaggio quasi dantesco nell’Aldilà dell’Altro. Che è poi il suo stesso Aldilà interiore. Un viaggio a partire dall’anima degli uomini e delle donne che incontra ogni giorno come pazienti, compiuto dall’autore denudando la sua di anima. “Non senza paura di tradire un mondo e una storia” scrive. La sua stessa storia di terapeuta e di uomo.
Così, in una verticale arrampicata in 7 monologhi, al maschile e al femminile, Stanghellini conduce per mano il lettore verso il Sé. Attraverso il sentire di chi è sopraffatto dal vuoto dei Penetralia: le ‘porte sacre‘, mistiche ed erotiche, che fanno accedere all’Informe che è dentro ciascuno di noi. O attraverso il tormento di chi vive il proprio Intérieur di donna in un corpo in transizione. Di chi nella Notte passa una “notte senza pieghe“, perché bardato d’insonnia: quel “ticchettio/tintinnio ininterrotto della coscienza. Indistinguibile dal gorgoglio/brulichio della vita. L’informe – appunto“. E ancora, di quell’adolescente – di oggi ma anche di ieri, come lo Stanghellini che fu – attratto e atterrito dalle Nuvole, “figure velate della Verità” in perenne sospensione fra cielo e terra, e perciò essenza stessa dell’intima condizione degli umani che le contemplano.
In Alle cose stesse il lettore troverà riflessioni profonde come un pozzo, simili a un mistico flusso di coscienza; al luminoso squarcio di un lampo nel buio dell’inconsapevolezza. Grazie anche all’apertura di uno scrigno di preziose citazioni e rimandi letterari, poetici, musicali. Che sono parte dei ‘ferri del mestiere’ dello Stanghellini psicoterapeuta e uomo. Come i chiodi dell’arrampicatore puntati tra le fessure della roccia, in parete, per compiere l’ascesa dei 7 monologhi di cui consta questa seconda opera della sua trilogia.
Partita a scacchi con la Morte
Infine, non si può non citare (fra i tanti passi che meritano citazione) un frangente drammatico del libro, al termine del monologo Penetralia: “Sto cercando la morte. Ma non trovo i mezzi per morire. Non so morire. Vado all’amore. Addio amici miei. Me ne vado a passo di danza verso la gloria. Presenza a me stesso. Divina presenza“. Nella finzione-non-finzione di Alle cose stesse l’autore, non a caso citando il titolo del primo libro della sua trilogia (Divina presenza) svela con grande coraggio di aver ingaggiato, chissà da quanto tempo, la sua personale partita a scacchi con la Morte.
Qui però c’entra fino a un certo punto il cavaliere Antonius Block del Settimo sigillo, film capolavoro di Ingmar Bergman. C’entra piuttosto una religiosità antidogmatica, ‘umanitaria’ e civile, abbarbicata all’anima come le radici alla terra, la “disperata vitalità” pasoliniana. C’entra, in fondo, quel che diceva Carl Gustav Jung: “Contemplo la morte perché mi insegna a vivere“. “Ma per me la vita è una minaccia al pari della morte (e dell’amore) – scrive Stanghellini dando voce al sé del monologo Soglia – perché non c’è vita senza morte, non c’è amore senza morte. La vita è una danza macabra verso la morte, e noi, i danzatori, siamo poveri pazzi ingannati“.
Ciò non toglie che possa restare in ciascuno un anelito di eternità, fino a quando “l’Agnello aprì il settimo sigillo” (Apocalisse 8,1) svelando il senso di tutte le cose. Ma fino alla patria dell’Informe, che in fondo non è che l’Eternità, non resta che amare “quella nuvola” che “fiorì solo un istante e quando riguardai sparì nel vento” (dal monologo Nuvole di Alle cose stesse).