A 73 anni appena compiuti Paolo Crepet è indignato. Non si capacita del fatto che si viva ancora, dopo oltre 60 anni, nella pasoliniana “civiltà dei consumi”: la società dell’omologazione di massa dove regna, apparentemente incontrastato, un unico modello di vita. Lo stesso che oggi ci sta portando verso la diffusione a macchia d’olio dell’intelligenza artificiale, capace di “puttanate” (copyright Crepet). Cioè di far prevalere ancora di più un perfezionismo tecnologico che non potrà mai riempire di senso, di qualità e di profondità la vita umana, liberandola e migliorandola davvero. Non resta dunque che “mordere il cielo” per provare a ribellarsi all’omologazione mentale, sociale e politica che ci ha fatto diventare tutti “conservatori”.
Professor Crepet, lei sta portando in tutta Italia il suo monologo-spettacolo “Mordere il cielo” tratto da suo omonimo libro. Cosa rappresenta il cielo nella sua vita?
Cielo è una speranza. Invita a guardare alto. È una metafora della necessità della volontà. Il termine cielo invita a intraprendere il viaggio della vita, evoca una traiettoria. È un andare verso…
Lei è sempre esistenzialmente in viaggio: che bilancio fa della sua vita?
Mah, io non faccio bilanci..con la bilancia… Non sono mica un droghiere.
Di questa sua, e nostra, esistenza, fa parte anche la guerra in Ucraina. Dopo 80 anni i conflitti armati sono tornati in Europa e rischiamo una guerra nucleare, mentre le guerre sono aumentate nel mondo da dopo il crollo del Muro di Berlino…
Sa, ma non è che quando c’era la Guerra Fredda non c’erano le guerre. C’erano altrove, non sui nostri territori. Soprattutto c’è sempre stata, anche dopo il crollo del Muro, una politica di guerra. Ci sono sempre stati i produttori di armi. Le mine antiuomo più potenti chi le costruiva e le costruisce? Produttori italiani.
Dunque la guerra c’è perché in fondo ci piace?
Non in fondo. Ci piace proprio. C’è sempre piaciuta. Si fa la guerra perché abbiamo una pulsione a distruggere. Pulsione che è sempre esistita. Non è vero che amiamo la pace e che non vogliamo la guerra. Spesso e volentieri non è così. E poi sa qual è il motivo? È che abbiamo sopravvalutato l’umanità.
In che senso abbiamo sopravvalutato l’umanità?
Nel senso che l’abbiamo fatta più buona di quanto sia in realtà. Perché l’umanità è anche quella che fa la guerra; che fa esplodere i cercapersone e i walkie talkie in mano ai nemici. Così com’è anche quella di quel ragazzo minorenne che ha sterminato la sua famiglia. O quella della giovane che ha sepolto i suoi figli neonati in giardino e poi è andata in vacanza come se niente fosse. Anche tutto questo è umanità, è realtà.
Nel suo libro lei parla dei “miserabili” ribaltando il concetto classico che questo termine esprime. Chi sono i miserabili di oggi?
Noi sappiamo come Victor Hugo definì i “miserabili“: coloro che erano caduti in miseria, ex carcerati, prostitute, bambini di strada. Ma io dico che oggi i miserabili sono i ricchi: chi ostenta la bella macchina o va continuamente al ristorante pensando che siano queste le cose che riempiono un’esistenza. Oggi la differenza fra chi è miserabile e chi non lo è non si basa sul conto in banca o sulla dichiarazione del 740 ma su chi coltiva e arricchisce il proprio spirito e chi non lo fa.
La sua visione della realtà è pessimista…Ma non abbiamo parlato all’inizio di questo colloquio di “cielo” da “mordere” come speranza?
Io non sono un cinico, intendiamoci. Ma vado in giro per l’Italia con i miei spettacoli, vado in televisione, scrivo libri che vengono letti…Insomma ho successo…Ma questo mio successo non lo misuro dal numero di spettatori a teatro e dalle copie vendute. Vorrei misurarlo dai cambiamenti nella società che mi sforzo di proporre a tutti. E cambiamenti non ne vedo.
Neppure fra i giovani?
Non vedo molti ragazzi capaci di cambiamento. Però la mia speranza è che ce ne sia qualcuno che si ribelli, che s’indigni. Che esca dai social. Che lotti per la libertà e per spezzare le catene di una schiavitù dell’avere tutto che è la schiavitù della nostra società, per cui siamo diventati tutti conservatori. Siamo schiavi ma siamo contenti di esserlo.