Era il 4 giugno del 1994 quando, a Roma, chiudeva gli occhi per sempre Massimo Troisi, tradito dal suo cuore. Sin da bambino, a causa di una febbre reumatica, aveva sviluppato una cardiopatia, ma da cui non si è mai fatto fermare. Proprio il cuore, lo stesso che gli ha permesso di essere immortale. Il suo cuore era tutto ciò che lo contraddistingue da tutti i suoi colleghi, contemporanei e non. Lui, che ha fatto del suo stile l’innovazione, attore, uomo di spettacolo, unico. Con lui se ne sono andati anche pezzi di tutti quelli che lo amavano in modo incondizionato.
Massimo Troisi era la dimostrazione che, quando il fuoco della passione e il talento ti brucia dentro, è davvero possibile fare qualcosa di mai visto. A teatro, aveva dato vita ad un movimento molto particolare, unendo la vita religiosa ai temi scottanti.
Penso che la religione, così come la famiglia, sia un potere difficile con cui convivere, un potere modificante. Mi accorgo che parlare di religione come miracolo, come Lourdes, è una mia costante. C’è in quasi tutte le cose che ho fatto, anche quando questo argomento non era calcolato. Perché ho sempre sentito la religione come un fatto strano, esagerato.
A teatro lui era il Pulcinella del Ventesimo secolo, perché aveva assimilato le trasformazioni di questa maschera. Ma anche perché si poneva in una posizione assolutamente marginale rispetto alla società e la cultura. Lui incarnava perfettamente la figura del polliciniello, il “pulcino” da cui quella maschera prende il nome. Così parlava, di lui, Federico Salvatore, a proposito del dualismo con il Pulcinella napoletano
Massimo è Pulcinella senza maschera. A parte che Pulcinella è stato, nel pieno del suo vigore, della sua vita centrale, censurato, e ha operato lo stesso senza maschera. Per me Troisi rappresente il Pulcinella che porta. Poiché Pulcinella è stato internazionale, francese, inglese, ha superato il Volturno. Massimo ha fatto la stessa cosa, l’unico napoletano con la napoletanità che ha superato il Volturno, quindi per me rappresenta un’ultima possibilità che abbiamo avuto, da un punto di vista teatrale e cinematografico, di superare, di uscire dallo stereotipo della napoletanità, fine a se stessa.
Massimo Troisi, approdato poi dietro la macchina da presa nel 1981, ha sconvolto la visione del cinema italiano dell’epoca. Ed al cinema che, secondo il suo intento ben riuscito, ha regalato la stessa enfasi del teatro, rivitalizzandone la visione stantia. Per ben comprendere il suo punto di vista e la sua macchina ideologica, possiamo prendere in esempio una scena pregnante del film Morto Troisi, Viva Troisi. Nel film lui è un operaio per conto di una troupe televisiva: nella scena è impegnato a sgombrare un giardino dai riflettori. In quel momento si rende conto che, la macchina da presa che era stata lasciata incustodita, era rimasta accesa. Allora, Massimo Troisi, dopo aver terminato il suo lavoro in scena, si avvicina alla cinepresa, iniziando ad interloquire con l’obbiettivo. Parla di politica, di soldi, di Pertini, della sua famiglia povera, che è intenta ad ascoltare il discorso del Capo di Stato.
Il suo cinema è quello delle incursioni, della prepotenza della vita e del quotidiano che, senza filtri, sfondano le barriere. In quella scena, Massimo Troisi è l’immagine degli ultimi, quelli della povertà più nera e delle periferie, che trovano una voce in un mondo che li vorrebbe muti. E’ il soggetto-speranza, talmente estraneo ai vertici del potere, da sembrare assurdo, grottesco. Lontano dalla gente “da bene”, coi soldi e il lavoro buono, lontano dai riflettori di un mondo patinato, che pesa sulle spalle dei deboli. Tant’è che, in quella scena, lui si rivolge agli attori, i fortunati, con l’epiteto “fetenti”.
E’ vero, Massimo Troisi non possedeva la tecnica, le conoscenze, ma aveva quella luce dentro, che io chiamo “genio”, che lo rendeva un pezzo da novanta. Ed è vero anche che la sua macchina da presa sembrava troppo incollata al pavimento, bloccata, ma la cinepresa non può che essere evidenziata, nella sua visione. Non può essere naturale una realtà filtrata dall’occhio meccanico di un artificio tecnologico. A lui non importava nulla di essere anticonvenzionale, lui voleva farlo a pezzi quel cinema da commedia decadente, voleva distruggerle quelle tematiche ribollite. I suoi film non parlano più di personaggi da cliché, ma ci sono antieroi dalle mille sfaccettature. I suoi sono uomini timidi, ingenui nel senso più positivo del termine, dei bambini a loro modo. Sono personaggi imperfetti, con difetti nel linguaggio, troppe domande e poche risposte, più eloquenti nei gesti che a parole.
E poi c’è Napoli, come un piccolo microcosmo, una realtà vista al microscopio. E’ Napoli il senso del suo combattere, perché il suo uomo partenopeo va fuori dagli schemi, si ribella. A cosa? Alle sopraffazioni, alle ingiustizie, al senso di inadeguatezza che spinge sempre alla rassegnazione. E Napoli è un piccolo mondo, per indicare il senso più universale dei suoi racconti. I suoi personaggi parlano in napoletano, è vero, ma potrebbero parlare qualsiasi altro dialetto.
Il mio personaggio parla napoletano e la gente dice “è Napoli, ecco il napoletano!”. E invece, secondo me, questo è un personaggio che parla napoletano, che si vede che tutta la sua esperienza, tutta la sua cultura, viene da Napoli. Però ha una visione più generale perché il personaggio forse poteva essere pure torinese.
25 anni dopo, noi non abbiamo ancora smesso di sorridere, ridere, emozionarci, per quell’uomo dai capelli inconfondibili e dal senso dell’umorismo unico. E forse è proprio grazie a questo sentimento di appartenenza che, da Sud a Nord, ci fa sentire uno dei suoi personaggi, che lui resterà immortale.