Esser capaci di “uscire” da se stessi; reagire in una situazione estrema laddove l’emozione, la pancia e la paura incombono improvvisamente nella vita. Nessuno può e vuole immaginare cosa possa significare, anche solo lontanamente, aiutare l’amore della propria vita a morire. Probabilmente neanche Mina sarebbe stata in grado di immaginarlo fino a quando non è successo realmente.
Velvet Mag ha avuto il piace di intervistare Mina Welby, la moglie del giornalista e attivista Piergiorgio Welby che alla fine degli anni ’90 scoprì di essere affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo. La sopravvivenza per Welby era strettamente legata alla funzionalità di un respiratore automatico, al quale era collegato dal 1997. Nessun tipo di trattamento medico era così efficace da alleggerire la distrofia muscolare.
Nessuna medicina poteva risollevare il suo stato di salute, neppure il tempo, diventato anch’esso un nemico. Ed è stata quella consapevolezza a portare Piergiorgio Welby a condurre una lotta per la dignità; una manifestazione contro chi negava la possibilità alla persona in stato terminale di decidere se vivere o morire.
Di quegli anni si è fatta portavoce la moglie Mina Welby, insieme a tutti i componenti dell’associazione Luca Coscioni. La storia di Piergiorgio, venuto a mancare nel dicembre del 2006, diventò un vero e proprio caso, riconosciuto da molti come “Il caso Welby”. Da quel periodo in poi il termine eutanasia è stato analizzato sotto ogni punto di vista e discusso sotto diversi profili istituzionali: giudiziari, psicologici, umani e cattolici.
Intervista a Mina Welby
Dietro una donna minuta di ottanta due anni è ancora viva la forza che ha dimostrato di avere negli anni più bui. Ogni ruga del suo viso racconta la storia di una vita intesa ed è incredibile come faccia spazio al sorriso, mentre racconta e ricorda il vissuto di Piergiorgio Welby. Scava nella memoria e ricorda tutto nei minimi particolari, come se il tempo non avesse tracciato tredici anni di distanza.
Ha scoperto presto cosa significa non esser liberi nelle proprie scelte. Sentirsi legati al pensiero meccanico e poco empatico delle istituzioni è una sensazione che ha assorbito attraverso il desiderio si suo marito, Piergiorgio Welby. Che cos’è per lei, Mina, la libertà di scelta?
La libertà di scelta può esser manifestarsi in tante maniere, perché una persona nasce e poi deve essere libera di scegliere per tutta la vita. Anche i bambini, per esempio: oggi sono loro che scelgono quale scuola fare, così da non lasciare gli altri amici. Poi c’è chi sceglie il proprio compagno o compagna o persone dello stesso sesso. Quindi, queste, sono tutte scelte di vita molto importanti e in parte sono state anche già deliberate da leggi e approvazioni.
Ma c’è anche un’altra scelta, che riguarda la fine di una vita. Esistono molte malattie degenerative che inducono il paziente ad un costante malessere. È una realtà molto importante perché la persona può scegliere fin dal principio se vuol fare una tecnica invasiva per poter esser nutrito o per poter respirare. A mio marito, per esempio, è stata somministrata la ventilazione artificiale che lui non avrebbe voluto.
Per quanto tempo Piergiorgio Welby è stato attaccato alla macchina respiratoria?
Per quasi dieci anni, quasi, ma sono passati meravigliosamente! Mio marito si era ripreso, anche se un aneddoto accaduto subito dopo l’uscita dall’ospedale è stato agghiacciante viverlo. Piero era disperato e voleva morire, tant’è che chiese al padre di aiutarlo. Loro andavano spesso a caccia e mi ricordo che gli disse proprio: «Papà sparami, me l’hai promesso». Ricordo l’espressione del padre che entrò in camera perché non riusciva a sopportare la richiesta del figlio.
Avevamo una brava infermiera che mi ha aiutato per una settimana. Ho visto che era riuscita ad incentivare di nuovo il suo modo di vivere, e dopo aver superato l’ostacolo che il tubo della respirazione effettivamente rappresentava, ha iniziato a stare meglio e a riprendere a scrivere. Ha sempre amato scrivere poesie e per la prima volta in quel periodo l’ho visto lavorare ad un romanzo che poi è diventato “Ocean Terminal”. Un libro scritto nell’arco di dieci anni ma incompiuto a causa del progredire della malattia.
Piergiorgio era una persona totalmente completa, ricca di idee e passioni. Nulla in quel periodo lo ostacolava. Nonostante le cause della distrofia muscolare, Piero scriveva anche per il giornale “La voce della Romagna”. Dal 2002 al 2006 ha coperto le informazioni di politica. La sua bravura descriveva anche l’abile velocità nell’inviare gli articoli; non era raro che i sui pezzi coprissero le prime pagine delle testate.
Il vostro rapporto coniugale aveva subito gli effetti di una malattia degenerativa così prepotente come la distrofia muscolare?
La nostra vita privata ha avuto un decorso normale. Come marito e moglie i nostri rapporti coniugali erano perfetti, anche se non nascondo che ogni tanto lui mi chiedeva se non fosse abbastanza. Ma per me tutto quello che avevo andava benissimo, non mi serviva nulla. Infatti esordivo con la stessa esclamazione:«L’importante che stai bene, che tu stai qui e ci possiamo guardare e fare tutto quello che facevamo prima!» – perché era vero. Era quello che volevo.
Avevamo addirittura ricominciato ad uscire e ad andare a pesca al laghetto sportivo, aiutati da un istruttore. Un’attività normale fino al 2002, quando poi è riapparsa la distrofia muscolare. Da quel momento un’altra pagina della nostra vita stava per iniziare. Piergiorgio aveva aperto un forum, “Eutanasia”, e l’esistenza di quella finestra web mi aveva scosso. Quella non era altro che una dichiarazione: lui voleva morire. Io da moglie non mi sono tirata indietro e l’ho aiutato a fare ricerche sull’eutanasia nel mondo e a contattare più persone illustri possibili.
Piero sapeva che era uscita la legge in Olanda e in Belgio. Nel novembre di quell’anno aveva scritto al Comitato Nazionale di Bioetica e contattato Francesco D’Agostino, il presidente del comitato di allora. Gli aveva chiesto di fare una legge, non sull’eutanasia, lui infatti diceva:«Se chiedo la legge sull’eutanasia non me la daranno mai. La richiedo per il testamento biologico». Purtroppo, come in molti sanno, non ha ottenuto neanche questa legge quando era in vita.
Quando ha cominciato a capire che molto probabilmente quelle lotte non avrebbero visto la conquista?
Aveva spinto tanto la sua idea e cercato ogni modo per farsi ascoltare e capire. Ma alla fine era così stanco, stava così tanto male che un giorno mi disse:
«Mina, dammi tutte le pastiglie che hai comprato di Tavor e mi lasci morire» – e io gli risposi:«Piero, io non lo so se tu riuscirai a morire col Tavor, perché per me è difficile. Non vorrei che poi tu rimanessi in uno stato peggiore rispetto all’attuale e venissi solo ricoverato in ospedale. Rischiamo poi di non stare più insieme. No! Questo non lo facciamo».
In queste situazioni estreme secondo lei, Mina, un medico cosa dovrebbe valutare e analizzare?
Il medico deve essere dalla parte del cittadino, che è anche paziente. Perché prima di tutto il paziente è un cittadino e i cittadini hanno i loro diritti.
Piergiorgio non riusciva più a parlare, non aveva nessuna intenzione di aspettare ancora, voleva che tutto avvenisse mercoledì, dopo i pacchi.
«I pacchi»? A che cosa si riferiva Piergiorgio?
(Ride, ndr) Sì, i pacchi, la trasmissione “Affari tuoi” di Flavio Insinna. Piergiorgio prima non aveva mai guardato programmi dai toni leggeri, ma nell’ultimo anno era così stanco che non ascoltava più le notizie dei telegiornali. Voleva vedere e sentire solo cose leggere, come “l’Isola dei Famosi”, il “Grande Fratello”, eccetera.
E quando è finita la trasmissione “dei pacchi” è accaduto qualcosa, giusto?
Per me quel mercoledì è stato un colpo terribile! Io piangevo e continuavo a piangere, e ricordo che Piergiorgio mi disse: «Hai gli occhi rossi. Hai pianto. Non devi piangere!»; gli avevo risposto che erano le troppe cipolle che avevo tagliato.
«Tagli un po’ troppa cipolla» – ovviamente lui non aveva creduto ad una singola parola. Era ironico anche nei momenti più tristi, come nell’ultimo. C’era un po’ troppo vociare in camera da letto, e lui chiese se per favore potevano andare a parlare in camera da pranzo e chiacchierare lì:«Io mi devo concentrare, muoio per la prima volta!».
Oggi si attribuiscono diverse definizioni all’eutanasia. C’è chi menziona il suicidio, chi parla di immoralità, c’è chi urla che sia un diritto. Lei Mina, che l’ha guardata dritta negli occhi, cosa pensa che sia l’eutanasia?
Non la voglio chiamare suicidio. Io la voglio chiamare morte volontaria assistita, che può avvenire in diverse maniere. Una persona in quelle condizioni non si vuole uccidere, ma non vuole più soffrire. Vuole uscire dal proprio corpo perché la vita non si limita al corpo stesso ma c’è altro, c’è una personalità. Ed io credo che questo concetto bisogna continuare a martellarlo nei cervelli delle persone. Anche dei preti. Piergiorgio quella sera mi chiese:
«Ma sei sicura che io riesca a morire?»
«Piero, io ho calcolato quanto ossigeno nel sangue perdi quando ti metto a letto. In dieci minuti sono dieci punti.»
«Ah, allora va bene! Però mi aiuti?»
«Sì, ti aiuto! Ti abbasso lo schienale così non puoi respirare.»
Quel mercoledì, dopo “i pacchi”, avevo fatto questo. Il medico mi chiese cosa stavo facendo. La mia risposta è stata: «Gliel’ho promesso!» Sono riuscita a stargli accanto e non ho pianto quella sera, perché lui me l’aveva chiesto: «Sei un soldatino, oggi non piangere!».
Dopo la sua morte la mamma di Piergiorgio disse: «Figlio, finalmente ti hanno ascoltato!». Lì ho capito che una madre è più coraggiosa nel saper lasciar andare.
Io credo che tutto quello che lasciamo culturalmente nelle persone, riviva. Vive ancora e viene moltiplicato.