A cinquant’anni da “Balsamus, l’uomo di Satana”, Pupi Avati ha omaggiato il suo esordio all’horror con un ritorno purissimo al cinema di genere. “Il signor Diavolo” ha incarnato infatti una serie di scelte portate avanti con fatica, e non senza provocazioni verso un sistema che il regista ha visto collassare sotto i suoi occhi. Avati però, 81 anni compiuti da poco, non si culla certo in una polemica tra generazioni, né tantomeno nella nostalgia di un vecchio cinema di cui è stato uno dei protagonisti. Il gusto per la provocazione, che avverte da sempre come un dovere quasi civico, continua ad accendere la sua visione del mondo ed emerge con forza anche in quest’intervista. Scegliendo con precisione aggettivi taglienti e regalandoci uno sguardo sui suoi esordi nel ’68, sulla passione che ha mosso l’incontro con Fellini e il dolore rimasto dal confronto più ‘letale’ con Dalla, Avati non dimentica uno sguardo sul presente, anzi. Che si tratti del cinema di genere o del mercato degli influencer, non risparmia mai un colpo a nessuno.

Intervista esclusiva a Pupi Avati

Maestro, lei festeggia cinquant’anni di carriera omaggiando il genere horror in un momento storico in cui il cinema di genere rischia praticamente l’estinzione.

Per anni ho frequentato e praticato il genere horror gotico. Insieme ad altri miei colleghi negli anni Settanta, come Dario Argento a Mauro Bava, eravamo una pattuglia di registi che portavano i film di genere in tutto il mondo. Poi il cinema italiano, che all’epoca era davvero presente su tutti i fronti del racconto, ha via via rinunciato, lasciando queste praterie di genere soprattutto al cinema americano e riservandosi soltanto un tipo di commedia incentrata sul presente. Quest’anno, con una certa difficoltà perché i committenti non sono più abituati all’horror, sono riuscito a fare “Il signor diavolo”.

A questo proposito, dopo cinquant’anni di carriera lei prima di produrre questo film ha ricevuto 6 rifiuti. Com’è possibile che anche Pupi Avati, ad oggi, riceva 6 ‘no’?

Sono la testimonianza vivente che è possibile. Ad oggi il cinema ci considera soltanto facendo delle valutazioni di carattere quantitativo: quanto può incassare questo film? Dalle loro previsioni risultava probabilmente che questo film non fosse abbastanza commerciale. Una volta questo ragionamento non sarebbe mai stato fatto. Oggi non c’è nessuno che, al di là delle scrivanie, ti dica: “Vogliamo fare un bel film?”, rischiando anche di fare qualcosa di straordinario. Quel tipo di spregiudicatezza è del tutto sparita. Anche nella televisione, anche nella fiction italiana.

Parlando di spregiudicatezza: lei ha più volte raccontato il suo primo incontro con Federico Fellini. Quel cercarlo, quel seguirlo, quel proporsi a lui ad oggi sembrerebbe impensabile. Perché nel cinema si è creata questa sorta di casta inavvicinabile?

Non so oggi quanto sia difficile incontrare i registi significativi del nostro presente, questo tipo di esperienza non la sto vivendo. So però che quando vado a fare i miei workshop trovo degli allievi che questo tipo di curiosità, come quella che avevo io all’epoca, non mi sembra che la esprimano. Noi da ragazzi eravamo veramente pazzi, assatanati, eravamo degli stalker, io per conoscere Fellini ho fatto delle cose…! E non solo Fellini. Il cinema mi piaceva in un modo viscerale. E continua ancora a piacermi allo stesso modo. I ragazzi di adesso condividono questa passione, ma con tante altre cose. Sono più ragionevoli, meno enfatizzati, meno ingenui. Noi eravamo totalmente ingenui, ed è l’ingenuo quello che si innamora passionalmente e definitivamente. Le persone ragionevoli si invaghiscono e basta.

Eppure oggi ci sono molte più accademie, più possibilità di studiare questo mestiere…

È vero, ma in accademia bisogna vedere anche chi è che insegna. Mark Twain diceva ‘quando non sai far una cosa, insegnala’. In moltissimi vengono a questi corsi di recitazione, vogliono far gli attori cinematografici ma hanno una conoscenza del cinema che si risolve tutta nel presente e in uno star system totalmente americano. Se lei chiede loro chi è De Sica, le rispondono Christian, “quello dei cinepanettoni”.

Però lei è ancora innamorato del cinema.

Io sì, per quanto abbia avuto forse più dolori che soddisfazioni dal cinema. Molti miei film non sono andati bene e mi hanno fatto domandare spesso se ne valesse la pena. Però continuo a pensare che sì, ne è valsa la pena, perché è uno strumento che mi ha permesso di dire chi sono, di raccontare quello che in quel momento dell’anno, della mia vita, era una mia opinione sulle cose del mondo.

Diego Abatantuono, Andrea Roncato, Gianni Cavina, ma anche Vanessa Incontrada e Cesare Cremonini, per non andare troppo indietro nel tempo, sono stati ‘scoperti da lei’. Ogni volta che ha scommesso su qualcosa o su qualcuno, da cosa è stato mosso davvero? Audacia, intuito… Incoscienza?

L’incoscienza è un elemento che m’accompagna anche adesso, arrivato ai miei ottantun anni. Mia moglie mi rimprovera e dice che sono più incosciente di prima. Ma è anche desiderio di provocare. Di mettere in discussione quelle che sono le regole, molto squallide, sulle quali si fonda il sistema cinematografico nazionale. Sono regolette infantili, stupide e poco lungimiranti. Anche perché, come vede, la situazione del cinema italiano è una situazione di paese in gran parte colonizzato dal cinema americano

Di recente, parlando del suo progetto futuro su Dante Alighieri ai microfoni di “Un giorno da pecora”, su Rai Radio1, lei ha lamentato sarcasticamente che tanto “preferiscono fare la vita di Chiara Ferragni”. Intanto Paolo Sorrentino, su Vanity Fair, ha criticato invece lo “sport nazionale di attaccare Chiara Ferragni”. Lei ha visto il documentario Chiara “Ferragni – Unposted”?

La mia dichiarazione era forse scorretta, l’ho espressa senza aver visto il film. Ma se per farsi un selfie con un cartonato della signora Ferragni bisogna spendere trecentocinquanta euro, mi pare così scandaloso, da paese così sottosviluppato, che è veramente pericoloso per i giovani. Mi meraviglio che Paolo Sorrentino, un uomo di grande intelligenza, non abbia colto il fatto che questa categoria, questo ruolo delle influencer, produca dei danni. Ci sono un’infinità di persone che campano facendo questi mestieri totalmente parassitari, nei riguardi di questi giovani ingenui che se non comprano quella matita per truccarsi o quella borsetta non si sentono a posto. Questi ragazzi, che vanno in migliaia a questi eventi spendendo soldi, credendo di assolvere a chissà quale compito, non si rendono conto che stanno rinunciando alla loro identità. Io non ho bisogno di una che mi dica cosa debbo mettermi la mattina o cosa bere alla sera. Queste influencer negano la mia indipendenza intellettuale, intervengono nella mia vita cercando di gestirla in cambio di guadagno. Mi meraviglio che Sorrentino non abbia capito una cosa così semplice, sono in totale disaccordo con lui e con la Ferragni.

Credo che Sorrentino non entrasse tanto in difesa della Ferragni, quanto di un odio che si manifesta senza interrogarsi sul perché di questo fenomeno.

Il perché è il mercato, che ha battuto le ideologie e qualunque forma di indipendenza. È il baratro definitivo in cui può cadere una società. La disperazione più totale è quella di non sapere ritenersi qualcosa di eccezionale, di prezioso, di unico, di irripetibile. Non possiamo essere ridotti a consumatori o a numeri dell’Auditel o della piazza.

Però mi sembra di capire che lei sia comunque al passo con il fenomeno, che studi questo tipo di dinamiche. Non se ne estranea, non rifiuta di conoscerle.

Le studio perché son preoccupatissimo, per i miei figli e per i miei nipoti. Vedo che certe volte sono sedotti da questi fenomeni. Abbiamo tolto ai ragazzi la possibilità di illudersi, di sognare, di credere di poter fare qualcosa di eccezionale. A noi era stato concesso.

Lei quanti anni aveva quando si è rimesso in discussione abbandonando la musica per il cinema?

Purtroppo ero già molto grande quando ho scoperto che il talento era indispensabile. Fino ai 27 anni son stato convinto che bastasse la passione per riuscire a conseguire un risultato. Poi nel confronto con altri, che invece avevano talento, mi sono accorto di non averne per la musica. È stato un risveglio dolorosissimo.

All’epoca studiava e suonava come clarinettista in un complesso jazz. Poi l’arrivo di Lucio Dalla nell’orchestra l’ha “messo in un angolo”. Con il senno del poi lei racconta questo passaggio della sua vita con toni quasi ironici. Deve averle fatto molto male.

Io ancora oggi mi considero un musicista fallito. Se dovessi dare una definizione di me stesso sarebbe questa. Il sogno della mia vita era la musica. Anche se poi con il cinema ho recuperato, la libertà e la bellezza del suonare il jazz insieme agli altri in una band è qualche cosa che non ha eguali. Io ho fatto questa esperienza negli anni belli della mia giovinezza e doverci rinunciare, pensare che gli altri continuavano a far le tournée, è stato molto doloroso.

È romantico ma non esagerato dire, cinquant’anni dopo, che lei ha fatto la storia ed ha partecipato anche alla storia degli altri. Pasolini, Fellini, Dalla, Bava… Aveva la percezione di giocare tra i fuoriclasse?

La percezione allora era relativa. Nel tempo però, questi straordinari autori che oggi, con un po’ di sconsideratezza, chiamo “i miei colleghi”, sono diventati dei giganti. Sono cresciuti anche perché il paragone con quelli che gli sono succeduti, è evidente che ha giocato a loro favore.

E invece che mi dice della percezione che aveva di sé in quegli anni?

È una domanda che non mi ha mai fatto nessuno… Mi trova totalmente impreparato! (Ride, ndr). Ho la sensazione che sia stato un altro quello che ha fatto queste cose. Quando metto insieme le facce, i personaggi, le storie che ho raccontato, mi sembra di non esser stato totalmente consapevole. Comunque c’è un dato: che io sono insoddisfatto. E questo mi fa sentire vivo nella mia attività presente.