Se dovessi aver bisogno di qualche assurda verità, andrei a bussare alla sua porta. Angelo Cricchi utilizza il verbo esattamente come la macchina fotografica: per quanto cruda possa essere la verità ti attraversa rapidamente ma rimane. Come quel dettaglio che non ami in una fotografia e vorresti che fosse nascosto da chissà quale altra cosa. Potrai camuffarlo, nasconderlo ma ritorna sempre nel farti sentire che esiste. Ecco, Angelo Cricchi lo sottolinea nelle sue foto. E se il contesto non dovesse piacergli, beh, rende reale l’irreale mettendo in scena una sua prospettiva e tu incarni senza accorgertene quello che lui vorrebbe che tu fossi. Ti porta nel suo mondo, e da li non scappi.
Fotografo di moda, insegnante, direttore artistico. Dategli una penna e lui saprà scrivere anche un’avvincente storia. Da oltre 30 anni la macchina fotografica – ancor più il banco ottico – è la sua compagna di vita. Con questo possente arnese sta lavorando attualmente ad uno dei suoi progetti considerati, forse, tra quelli più importanti: Le donne che non ho amato. Tra le tante attività, con gli amici di Arte.it è attualmente impegnato nella produzione di una serie di documentari d’arte. Il primo su Canova, in cantiere ormai da due anni. Ma il 2021 non poteva che iniziare con un nuova meta da raggiungere: un film su Giacomo Balla e con un interessante incontro al Vittoriale dove ha intervistato un fascinoso Giordano Bruno Guerri.
Prima di immagine, banco ottico o pellicola, nella tua vita c’è stata l’atletica. Chi eri allora?
Alla mia veneranda età ho accettato di essere stato uno decente in varie cose, ma non un genio in niente. È un concetto terribile da dire a se stessi. Sono stato un buon atleta della Nazionale atletica leggera e penso di essere ancora 87esimo di tutti i tempi. Non nascondo che in un momento di ego ho visto Google e ho notato che sono nella Top 100. O meglio, credo. Magari ho visto male! Ci sono molti artisti che vengono dallo sport. È una disciplina meravigliosa e, se non ci fosse stata nella mia vita, forse, sarei morto.
Ti è servita questa esperienza quando ti sei approcciato alla fotografia?
Mi è servita la parte competitiva che lo sport ti insegna. Mi ricordo quando ho fatto il brevissimo corso di fotografia da cui mi hanno cacciato per poi passare dall’altra parte della cattedra. Proprio lì tra quelle mura ho insegnato per ben 26 anni. Quando per la prima volta sono entrato nella scuola mi sono detto: «Ma questi vogliono fare i fotografi. Allora lo faccio anche io!». Ed è stato in quel momento che è scattata la fase competitiva. E devo dire che mi è servito. Una volta fotografai un atleta ai miei inizi e in quell’occasione lo aveva fotografato anche un altro. Lo trovai più bravo di me e avevano fatto bene a pubblicare le sue immagini.
Oggi sono in tutt’altra posizione nella vita e quando ho bisogno di descrivermi in una sola parola dico: indie. Nel senso che per tutta la vita ho voluto essere indipendente e non entrare mai totalmente in un sistema. Infatti, non sono nel sistema della moda. Né in quello dell’arte. Non sono entrato nel sistema delle celebrities, anche se in realtà le ho raccontate tutte.
Mi sembra di capire che tutto è capitato per caso.
Dopo lo sport dovevo fare l’avvocato ed entrare in un grande studio di famiglia. Ho dato anche una quindicina di esami a Giurisprudenza ma al tempo mi sentivo fuori gioco. E mentre cercavo di centellinare il tempo, mi sono ritrovato un giorno dentro un’auto fusa sul curvone della Cassia, dove presto ci sarà una targa commemorativa (ride, ndr). M’aveva lasciato la donna e m’avevano sfrattato da casa. Insomma, avevo 26 anni e mi son detto: «Ora ti tocca diventare serio, anzi, sarai una persona che farà delle cose non sobrie tutta la vita». Su quel curvone avevo scoperto che avrei fatto qualcosa di non regolare.
Hai viaggiato molto in giro per il mondo e incontrato interessanti persone di fama internazionale. Tra questi, qual è stato il viaggio più importante e l’incontro che non dimenticherai mai?
L’Amazzonia è stato un viaggio fondamentale per la vita professionale e non. Rio delle Amazzoni ’97, gli albori di internet. Sono stato più di un mese su quelle terre con il banco ottico a fotografare gente sui fiumi. Ho preso ispirazione dal racconto Cuore di tenebra. Anche se in realtà, voltando lo sguardo su Conrad, sembrava più che appartenessi alla trama Linea d’ombra. Sai perché? Nel romanzo di Conrad questa nave fa un passo avanti e due passi indietro. Ne ho visitati molti di luoghi. Ci sono posti che ti raccontano e posti che invece non ti riguardano affatto.
Da quanti anni fotografi?
Sono 30 anni dal mio primo editoriale su Vogue Pelle. Settembre ’90. Ovviamente fotografavo già da prima. Per onorare questi anni ho richiamato tutte le donne importanti che ho fotografato nella mia vita per scattarle di nuovo. Un lavoro che – a parer mio – ha un nome molto bello: Le donne che non ho amato. La prima l’ho ritratta nell’Ottobre del 1984. Poi, dopo un infortunio che spazzò via lontano dalla mia vita l’idea di fare le olimpiadi, ho preso una macchina e ho cominciato a fotografare durante un viaggio in solitaria nello Sri Lanka, a soli 21 anni. Non so neanche io il perché. Ma al mio rientro ricordo che ho continuato a fotografare.
C’era una donna dalla quale ero innamoratissimo. Al contrario lei non mi notava proprio. Quando ho avuto tra le mani l’immagine, ho visto quanto lo scatto descrivesse esattamente quello che pensavo di quella donna. Grazie a quel momento mi sono davvero detto: «Allora posso dire quello che penso delle persone, fotografandole». Ad oggi è emozionante richiamarle e magari rivederle dopo 30 anni.
Accadono tante cose qui, in uno dei quartieri della periferia di Roma, a via Arimondi 3, dove risiede la tua casa-studio. Se non fosse per la serratura ed il mazzo di chiavi che hai sempre con te, questo posto sarebbe di tutti. Qui alla Lost and Found si parte dall’idea e si arriva alla produzione fotografica. Alcuni progetti sono ad ampio respiro letterario, altri culturali. L’ultimo è la rivista Flewid.
Flewid si occupa di inclusione dal 2017, quando ancora questa parola non era del tutto compresa. La direttrice è una transgender. Ci occupiamo di lgbt, di disability, razzismo, di body positive e di tutte le altre forme di distorsione del corpo con una lettura estetica. Siamo amati da molte persone. Abbiamo fatto un lavoro meraviglioso con Cristiano Godano dei Marlene Kuntz insieme a Marras. Altrettanto bellissima è stata l’esperienza con Sandra Milo.
Prima che salutassimo il 2020, sulle pagine di centinaia di tabloid si leggeva : Sandra Milo nuda a 87 anni sulla cover di Flewid. Com’è stato lavorare con lei? Quale aspetto “simbolico” ha lasciato Sandra Milo in Flewid?
Sandra Milo era nel nostro book of dream da diversi numeri. Quando abbiamo ricevuto conferma della sua partecipazione ho pensato che sarebbe stato interessante farla fotografare ad una giovane fotografa donna e la scelta è andata su Chiara Meierhofer Muscarà. Una mia scoperta che coniuga una delicatezza ad una grande forza. L’immagine realizzata da Chiara di Sandra Milo in quella posizione, l’avrebbe potuta realizzare solo lei, con quella naturalezza e complicità tra donne indipendenti di generazioni diverse. Spiega forse il fatto che sia diventata virale, con l’appellativo di Sandra Milo nuda ad 87 anni, anche se in realtà è vestitissima. Gli haters che scrivono che è un fotomontaggio (non c’è alcun ritocco) e la copertura di network e, broadcast è un mistero mediatico sul quale ancora, ridendo, ci interroghiamo.
Durante il lockdown, insieme al supporto di Simone Passeri, hai creato una finestra di dialogo su Instagram. Dirette in cui i fotografi di fama ed emergenti parlavano di fotografia al tempo del Covid. Inoltre, a valorizzare quel tempo sospeso, c’è stato anche lo sviluppo di un libro che racconta la Roma deserta che nessuno scorderà.
Io ho la fortuna di vivere in una casa-studio molto grande, dove vivo e lavoro sotto lo stesso tetto. In questo periodo così delicato e storicamente particolare ho curato un libro di fotografia e testi per Il Cigno GG Edizioni di Lorenzo Zichichi dal titolo Nolite timere, Roma non perit 2020. Roma al tempo del Coronavirus. Fotografie e testimonianze. Io, Dario Coletti ed altri fotografi abbiamo immortalato questa Roma così deserta. Interessante a livello fotografico e al tempo stesso forte sul piano personale. Ho scelto di andare in quei posti laddove “l’assenza” è quasi sempre presente anche prima della pandemia. Eur, Appia Antica. Volevo vedere se il vuoto cambiava. E sì, eccome se cambiava!
Detto tra noi, la mia serie fotografica preferita è indubbiamente Kimono. Una tua conquista un giorno ti lascia i suoi kimono (e non è neanche tanto felice di farlo) e tu li rendi protagonisti di una lunga serie fotografica molto particolare.
Ho sempre avuto il Giappone intorno a me e non so il perché. Ho conosciuto questa ragazza giapponese quattro-cinque anni fa. Al tempo faceva l’illustratrice e andava sempre in giro con il kimono. Ci scrivevamo spesso, virtualmente. Finché improvvisamente alla porta hanno bussato dicendomi: «C’è una ragazza in kimono all’entrata». Questa giovane “K”, aveva deciso di venirmi a trovare senza avvertirmi. È rimasta nella factory circa un mese finché non mi ha comunicato che si sarebbe stabilita qui, da me, per sempre. Beh, era arrivato il momento che lei andasse via. E “K” prima di ripartire ha preso i suoi quattro kimono, li ha ripiegati alla giapponese e mi ha detto: «Questo è il segno della mia presenza. Qui rimarranno finché non tornerò a riprenderli». Stavo proseguendo con il mio lavoro fotografico quando un giorno, mentre mi annoiavo, ho inserito il kimono tra i miei scatti. Appena lo indossavano, per una ragione tuttora misteriosa, le donne che volevo ritrarre cominciavano a raccontarmi le loro storie, alcune molto intime. Di solito partivo semplicemente con «parlami di tuo padre», il che è curioso perché da quella richiesta mi rivelavano aspetti molto inediti della loro vita.
Cosa ti raccontavano?
Ho fotografato 130 donne in un anno circa, e non il meno del 30% mi hanno parlato di violenze subite spesso in casa. Sono donne che appartengono non solo a quel substrato culturale circoscritto da una vita poco appagante, anzi. Spesso queste storie venivano raccontate da persone appartenenti ad un ceto sociale alto. Arrivavano tre donne al giorno per raccontarmi, per raccontarsi. Storie fortissime, di grande impatto emotivo. Troppe. Possiedo 35 mila foto e 700 ore di registrazione. È una mole di lavoro immensa, tant’è che ho cercato supporto andando da una psicologa per capire come poter gestire la situazione dinanzi a persone che generalmente conoscevo e conosco poco, o per nulla. Sai l’analista cosa mi ha risposto? «Fammi il kimono». Sono arrivato a fare il kimono all’analista e alla psichiatra. Mi manca la suora (ride, ndr) e credo di averle fatte tutte.
Cosa cerchi nello sguardo di una persona?
Il soggetto umano lo puoi riprendere in una situazione di realtà o ricostruire la realtà. A me, del reale non me ne frega niente. Non sono interessato minimamente a riportare la realtà. Mi interessa ricostruirla tendendo ad essere Dio, creando il reale e rimettendolo in scena. Tu che vieni con la tua magliettina, per me ha poca importanza. Al contrario, se ti metti il kimono. In quel caso sei tu che ti rapporti a me ed entri nel mio mondo. Nei miei rari reportage invece, come per esempio i lavori suoi fiumi, rendo irreale il tutto. E la cosa migliore per far sì che ottenga tale risultato, è esattamente l’assurdità del banco ottico.
Una delle tue ultime fotografie pubblicate sul tuo profilo Instagram ritrae Rita Levi Montalcini. Mi racconti cosa è accaduto quel giorno?
Si è cambiata 5 volte quella mattina. Eravamo molto intimiditi. Io ero molto intimidito. Di solito sono coatto: se la persona che ho davanti è figa, io lo sono di più. Non mi spaventa la fama, anzi. Quando fotografo uno famoso penso sempre che ho davanti una persona con degli scheletri nell’armadio. Questo mi da meno ansia quando devo scattare. Tranne quando ho fotografato Rita Levi Montalcini. La professoressa aveva già 95 anni, entrò nella stanza tutta vetrata della casa nei pressi di Villa Torlonia con un abito di Capucci. Dopo appena 10 minuti mi chiese di fermarmi, voleva cambiarsi. E tornò con un altro abito, sempre Capucci. La volontà di essere bella da parte di una donna di oltre 90 anni mi fece capire quanto sono privilegiato nel mio mestiere.
Che cos’è la bellezza, Angelo?
La bellezza è un valore politico. Fare bellezza presuppone un miglioramento della società. Non è bontà, perché la bellezza può essere anche cattiva. Nel senso che ci sono gesti cattivi, ma bellissimi. Credo comunque che una cultura della bellezza migliori la società e le persone. Tale virtù è un bene pubblico: io non mi porto a casa la Gioconda, ma faccio in modo che tutti conoscano la Gioconda. Sono esattamente due cose diverse. Esiste tuttavia un’etica della bellezza che è contestabilissima. Come d’altronde quasi tutto quello che dico.