Passare dalle belle parole ai fatti non è mai facile, soprattutto se si discute di ambiente, cambiamenti climatici e sviluppo sostenibile. Così accade anche al G20 di Napoli che vede riuniti i ministri dell’Ambiente e gli inviati per i problemi del clima dei maggiori paesi del pianeta.

Kerry e Cingolani

Nella seconda e ultima giornata del summit, oggi 23 luglio, il dibattito è bloccato. Al centro dello scontro fra le delegazioni c’è la decarbonizzazione. Termine che, a udirlo, non suona bene, ma che implica un taglio netto in direzione di una società meno inquinata. Ovvero, abbandonare le fonti energetiche fossili per quelle rinnovabili trasformando progressivamente industria, mobilità e stili di vita. L’inviato per il clima del  presidente Usa, John Kerry, e il ministro italiano della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani (al centro nella foto), stanno cercando di sbloccare il negoziato che si è impantanato per le opposizioni di alcuni paesi. L’obiettivo è arrivare a un documento condiviso sulla necessità e sull’urgenza della decarbonizzazione.

Schieramenti contrapposti

Dopo la giornata di ieri dedicata alla tutela di ecosistemi e biodiversità, oggi 23 luglio si affrontano dunque gli argomenti più complessi e divisivi: il clima e l’energia. Su questi temi il vertice registra una profonda divisione fra Usa ed Europa da una parte, Cina, Russia, economie emergenti e paesi petroliferi dall’altra. Stati Uniti, Unione europea e Gran Bretagna, ricchi di capitali e di tecnologie, vorrebbero accelerare sulla decarbonizzazione e sul passaggio alle fonti rinnovabili. Obiettivo: mantenere il riscaldamento globale, al 2030, entro +1,5 gradi dai livelli pre-industriali. Gli altri paesi del G20 frenano su questo processo. Cina e India non possono rinunciare alle fonti fossili per alimentare la loro forte crescita, Russia e Arabia Saudita basano le loro economie sugli idrocarburi.

Il peso delle fonti fossili

Uscire dalle fonti fossili non è un processo semplice per nessuno dei paesi più ricchi, in realtà. Servono tempo e capitali per costruire centrali eoliche e solari. Una troppo rapida decarbonizzazione, inoltre, rischia di danneggiare industrie nazionali come l’automotive o le acciaierie. La vicenda dei gilet gialli in Francia è stata citata ieri dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani come un esempio dei possibili “danni collaterali” della decarbonizzazione. Questo perché una tassa sui carburanti, imposta in Francia per spingere i cittadini ad andare meno in auto, è stata vista come un ulteriore balzello da chi – come gli agricoltori – è costretto a usare il mezzo privato e non può permettersi un veicolo elettrico.

Dumping ecologico

A tutto ciò si aggiunge il problema del dumping ecologico. I paesi più ricchi possono impegnarsi a produrre acciaio con tecnologie pulite, ma poi rischiano di subire la concorrenza dell’acciaio a buon mercato prodotto da paesi che non rispettano standard di sostenibilità. Un gruppo di associazioni ambientaliste ha intanto scritto una lettera aperta ai paesi del G20 per chiedere “un pacchetto post-pandemico che affronti di petto l’emergenza climatica“. In caso contrario, le ong annunciano che “la battaglia per la giustizia climatica continuerà con tutti gli strumenti a disposizione, inclusi quelli legali“. La strada verso la decarbonizzazione appare più tortuosa di quanto sembrasse in un primo momento.