Musica

Che ‘nostaljazz’: Bruno Lauzi, l’umorista della scuola genovese dei cantautori

Se i primi cantautori hanno sempre minimizzato la loro rivoluzione, noi non smettiamo di ricordarla

C’era una volta quel periodo che appare ormai mitico, ricordato musicalmente per la cosiddetta ‘scuola genovese dei cantautori’. Erano gli anni Sessanta, e un gruppo di giovanissimi interpreti e musicisti che faceva base nel capoluogo ligure, si trovò a incarnare per la prima volta in Italia la figura del cantautore. Era una rottura con il passato e insieme una rivoluzione, che anche grazie alle influenze di altri paesi, fece largo ad una canzone impegnata, all’individualismo dei singoli interpreti, ma anche ad un movimento che metteva al centro il sentimento e l’esistenzialismo. Una roba tipo la Belle Époque francese, anzi, per quanto mi riguarda anche meglio. Letteratura, ideologie e clima culturale confluirono insieme in un nuovo modo di elevare la canzone e far musica.

A chiederlo a loro, però, a quelli che l’époque genovese l’hanno fatta, è capitato di sentirli ridimensionare la questione. Paoli, Lauzi, Tenco, De André, Calabresi e Bindi, insieme ai due motori discografici del movimento, i fratelli Reverberi, hanno sempre preferito raccontarla come una ‘cosuccia’. Un gran bel tempo, pieno di aneddoti e ragazzate, in cui il cantautorato italiano è nato un po’ per caso.

Il ricordo di Reverberi

In un prezioso libro scritto proprio da Gian Franco Reverberi, La testa nel secchio, l’amico ricorda Bruno Lauzi ai tempi in cui il gruppo di ragazzi iniziava ad affacciarsi al mestiere, frequentando gli stessi locali (i famosi “quattro amici al bar” cantati da Gino Paoli, che in effetti qualcosa nel mondo l’avrebbero cambiata). Avevano un piccolo gruppo musicale, Gli Ioni, che doveva il nome proprio a uno ionizzatore che avevano fieramente rimediato tramite terzi. C’era Tenco, sarcastico, bello e tenebroso. Aveva ereditato dallo zio un clarinetto, tenendolo assemblato con degli elastici finché non ha potuto permettersi un sax contralto. C’era Reverberi, che già era il trait d’union tra tutti quanti, e che presto li avrebbe portati da Genova a Milano, lanciandoli con l’etichetta Ricordi. E c’era anche Bruno Lauzi, che dopo aver suonato il banjo era passato alla chitarra, con poche lire in tasca. Era particolarmente amico di Gian Franco. Fumava sigarette Nazionali, ma le offriva di rado. Era quello del gruppo che freddava la gente battute lapidarie, un anticonformista per partito preso. Lo faceva “per tenere viva la conversazione – Reverberi se ne è convinto nel tempo – altrimenti, se si è tutti d’accordo, il discorso si esaurisce subito”.

Bruno Lauzi, l’umorista genovese

Di Lauzi, non a caso, l’amico racconta anche che era “di un’intelligenza non comune e con un senso dell’umorismo spiccatissimo, era un genio dello sputtanamento. Quando Reverberi buttò giù quella che sarebbe diventata una piccola bibbia dei ricordi (Iacobelli editore), concedendoci uno sguardo altrimenti inaccessibile su quella banda di ragazzetti che, senza capirlo, si trovò a rifondare la musica italiana, Bruno Lauzi già non c’era più. Non era stato il primo ad andarsene. Lo avevano anticipato, prematuramente, prima Tenco e poi De André. Ma per Reverberi (che di quella banda era la testa) Lauzi conserva un posto privilegiato. Per questo, forse, ha saputo raccontarne la vena comica e ironica che difficilmente viene a galla dalle sue canzoni (come vale, d’altronde, per gran parte della scuola genovese).

Nato nel ’37 nella colonia italiana d’Eritrea, ad Asmara, Lauzi era poi cresciuto e vissuto a Genova. Come gli altri, era un figlio della guerra. Uno che aveva scoperto la musica grazie ai dischi portati in Italia dagli americani e che assorbiva tutto il vento culturale che tirava al di là del mare. Fin da bambino aveva condiviso con Tenco il banco al ginnasio, la passione per la musica e quella per il cinema. Nel frattempo, come Paoli, si era innamorato della canzone francese (Brel, Aznavour, Brassens) iniziando ad assaporare anche certi sound brasiliani (riascoltare L’appuntamento e Dettagli di Ornella Vanoni, solo due dei brani scritti da Lauzi e composti da Roberto Carlos ed Erasmo Carlos, per farsi un’idea il risultato di queste contaminazioni). Bruno amava anche l’inglese e lo conosceva benissimo (era il pupillo dell’insegnante, a detta di Reverberi): merito delle lunghe chiacchierate fatte con i marinai al porto.

Ritornerai, e riderai

Il primo vero successo per Lauzi è arrivato nel 1963, con Ritornerai. C’è tantissima Francia in questo quarto singolo che lo presentò definitivamente al pubblico, a partire dalla malinconica copertina, raffigurante una foglia ingiallita che evoca un autunno fatto d’attese. È un pezzo bellissimo, che non stanca mai, non a caso uno dei suoi più famosi. Un bolero che con la ripetizione della stessa strofa perpetra nell’agonia di un amore finito.

Impossibile non volare con la mente a La messa è finita di Nanni Moretti, che nell’85 ha dedicato al brano il finale del film, nella famosa scena del matrimonio, piena di romantico disincanto. Parto, vado molto lontano – recita Nanni – in un posto dove c’è un vento che fa diventare pazzi. E dove hanno bisogno di un amico. La mia vita è bella perché sono stato molto amato. Io sono un uomo fortunato”. E sulla benedizione finale, osservando la parrocchia che sta per lasciare nel tentativo di ritrovare una fede profonda, Nanni/don Giulio guarda la chiesa riempirsi di vita. Mentre coppie di fedeli iniziano a ballare sulle note di Lauzi. “Ti senti sola con la tua libertà, ed è per questo che tu ritornerai”.

Senza prendersi sul serio

Quando è stato Bruno Lauzi, invece, ad andarsene, fino all’ultimo non ha rinunciato a quel suo innato umorismo genovese con cui ha affrontato anche la malattia. Nella sua lettera a Mr Parkinson, resa pubblica e rimasta una pagina intrisa di drammaticità e ironia che ben lo racconta, Lauzi si rivolgeva al ‘signore’ che gli aveva rovinato i piani: “Non è con piacere che le scrivo questa lettera”. Era un attacco sfrontato al Parkinson, ma anche un inno a non mollare. “Ho superato con una certa disinvoltura l’imbarazzo che lei (l’ho scritto senza maiuscola, non la merita) mi ha creato”. Disinvoltura che – anche qui i racconti di Reverberi non mancano – Lauzi aveva portato perfino nei suoi concerti. “Per togliere da un eventuale imbarazzo il pubblico, smitizzava: ‘Sono andato dal dottore a far vedere questa mano tremolante e lui mi ha chiesto: ‘Beve molto?’. ‘No’, ho risposto, ‘è più quello che verso’.

Era l’ottobre del 2006, e accanto a lui c’erano ancora gli amici di una volta, quelli con cui tutto era iniziato. “Il giorno prima che morisse andammo a trovarlo, io, Reverberi e Calabrese”, – ha ricordato Gino Paoli in un’intervista a la Repubblica. “Bisbigliando mi disse: ‘Quest’anno al Tenco mi premiano, vacci tu, tanto sarò morto, fammi fare una bella figura eh?'”. Nei ricordi di Reverberi, era stato proprio Paoli ad avvisare lui e Calabrese, invitandoli a partire subito per Milano per salutare Lauzi l’ultima volta. In quell’occasione avevano ascoltato insieme l’ultimo disco di Bruno, come se niente fosse cambiato, tra considerazioni e appunti sulle eventuali migliorie da apportare.

È una delle ultime istantanee di quell’époque genovese e di un’altra epoca italiana, in senso lato, incarnata dal primo cantautorato. Quella dell’“Italia che rideva” raccontata Nell’estate del ’66 di Lauzi, un brano pieno di jazz e di nostalgia (pubblicato infatti nel disco Nostaljazz). In quell’album uscito nel 2003, Lauzi chiudeva la canzone – coincidenze della vita – utilizzando per la rima finale proprio l’anno in cui ci avrebbe lasciati: “Ci vediamo ciao, non mi dimenticare. E infatti mi ricordo ancora come sei… Anche se siam quasi nel 2006”.

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