Cos’hanno in comune Fight Club e Vogue di Madonna? Sì, proprio il cult con Brad Pitt e Edward Norton, di cui tutti conosciamo il principio fondamentale – “Prima regola del Fight Club: non parlare mai del Fight Club” – ha un legame con il celebre videoclip dell’omonima hit della Regina del Pop: la regia di David Fincher. Ancora prima di debuttare nel mondo del lungometraggio con Alien³ (1992), infatti, il regista e produttore statunitense si era affermato curando spot pubblicitari per diversi brand e, soprattutto, numerosi videoclip. Suo è il nome dietro ai video musicali di successo di artisti del calibro di The Rolling Stones, Michael Jackson, Sting, Aerosmith e Billy Idol (per citarne alcuni). Era evidente fin da subito, già solo partendo dalla visione di queste forme brevi, che nel suo modo di fare ci fosse qualcosa di ipnotico e viscerale, di cui i videoclip restituivano solo una parte.
Il cinema ha invece permesso al regista di offrire una visione più completa e complessa allo spettatore: la questione non era più “intrattenere”, ma “scuotere”. E David Fincher ci è riuscito grazie ai suoi rompicapi, agli enigmi senza fine, alla ricerca di un senso, mostrando fino a dove l’animo umano sia in grado talvolta di spingersi. Oggi 28 agosto, in occasione del suo compleanno, non potevamo dunque non celebrare una delle personalità riconosciute, a livello unanime, tra le più influenti del cinema contemporaneo.
David Fincher, gli inizi e il successo con Seven
David Andrew Leo Fincher è nato a Denver, in Colorado, il 28 agosto 1962. Noto sia sul grande che piccolo schermo, prima ancora di approcciarsi alla regia di videoclip, si cimenta come assistente agli effetti speciali. Approda in giovane età, infatti, alla Industrial Light & Magic, fondata da George Lucas ed è qui che comincia ad apprendere alcuni trucchi del mestiere. Partecipa alla realizzazione di effetti speciali in pellicole del calibro di Indiana Jones e il tempio maledetto e La storia infinita (entrambi 1984). Nello stesso anno si avvicina alla regia, curando alcuni spot per brand quali Nike, Coca-Cola e Chanel e numerosi videoclip.
Al 1992 risale il suo debutto sul grande schermo, che lo porta a entrare nell’universo narrativo di Alien. Terzo capitolo della nota saga di fantascienza, non ottiene il riscontro sperato. La versione definitiva di David Fincher, inoltre, viene accorciata di mezz’ora, uscendo in un’edizione rimontata soltanto nel 2003. Nonostante un inizio non proprio dei migliori, tuttavia, il regista statunitense aveva molto da raccontare e un modo originale per trasmettere le sue suggestioni. Ben presto, infatti, il pubblico si è accorto del suo stile, già a partire dal secondo film da lui diretto: Seven. Distribuito nel 1995, il thriller vanta un cast stellare che include Brad Pitt – con cui Fincher più volte tornerà a collaborare – Morgan Freeman, Kevin Spacey e Gwyneth Paltrow. Esattamente 26 anni fa, al suo secondo lungometraggio, il regista si è trovato a riscrivere le regole del genere, grazie al suo nuovo film, divenuto in breve un cult.
David Fincher, il regista del limite umano: tra enigmi e incertezze
Il film ha gettato anche le basi di una peculiare cifra stilistica che l’autore statunitense ha dimostrato di possedere, riconfermandola nelle pellicole successive. La ricerca del misterioso serial killer che si cela dietro le esecuzioni di Seven, in cui l’assassino “punisce” con la morte ignari colpevoli dei sette vizi capitali passa il testimone, nel 1999, a uno dei capolavori di David Fincher: Fight Club.
Basato sull’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, aggiunge a quell’aria tesa e angosciosa, divenuta cifra stilistica del regista, un ulteriore tassello: la via di fuga dalla razionalità. Se con gli enigmi di Seven ci aveva disorientati, con la vicenda interpretata da Edward Norton e Brad Pitt ci ha fatti andare fuori di testa. Non soltanto nell’intreccio narrativo, basato sull’omonima opera letteraria, ma attraverso una progressiva catabasi nei meandri più oscuri, negli “inferi” del protagonista fino alla sua graduale perdita del controllo e alla rivelazione finale, che rimescola le carte in tavola.
Il crollo delle certezze in Gone Girl – l’amore bugiardo
David Fincher non si limita a raccontare. Lui vuole sviscerare e sezionare la storia attraverso i diversi punti di vista. Ci porta letteralmente all’interno del personaggio: basti pensare alla scena iniziale di Fight Club, che ha origine all’interno della bocca di un uomo che si sta per suicidare. O all’inizio di Gone Girl – l’amore bugiardo, in cui Nick (Ben Affleck) accarezza la testa della moglie Amy (Rosamunde Pike), ammettendo che vorrebbe aprirla, per capirne il mistero e la fascinazione. L’autore punta sull’acceleratore nelle sue opere, cercando di scovare quali siano i limiti umani e, soprattutto, cosa si sia disposti a fare una volta raggiunti quei confini.
Proprio in Gone Girl, David Fincher cosa la mente umana possa concepire, se messa alle strette. Nick e Amy sono due coniugi medio-borghesi che apparentemente vivono il sogno americano. Segretamente, tuttavia, entrambi sono intrappolati in un matrimonio infelice. La scomparsa improvvisa della donna getterà man mano a terra quel castello di carta su cui la loro relazione era basata. Ben presto la polizia comincerà a sospettare di un eventuale omicidio di Amy e i sospetti ricadranno proprio su Nick. La narrazione si alternerà a flashback sia di lui che di lei, che mostreranno come, dagli inizi mossi dai maggiori propositi, la loro storia si sia deteriorata. Al contempo, Gone Girl mostrerà l’ultima grande trovata di una donna che, presa dalla disperazione, dimostra cosa sia disposta a fare una volta oltrepassato il limite.
David Fincher e la critica all’opinione pubblica
Se l’angoscia e la paura, miste all’incertezza, sono temi alla base del cinema di David Fincher, nei suoi film ha trovato spazio anche un critica palese al potere della stampa. Quello che Orson Wells, in effetti, aveva criticato come Quarto Potere. Gone Girl ne è ancora un esempio perfetto. Prima ancora che ne sia dimostrata la colpevolezza, prima ancora che il corpo di Amy venga trovato, infatti, Nick viene tacciato come colpevole. Offerto in pasto alla stampa, l’uomo subisce un processo mediatico, ricevendo attacchi di ogni tipo. La sua “esecuzione” in pubblica piazza nasce dalla continua necessità della stampa di offrire un “capro espiatorio”, così da annichilire le persone.
Una dinamica che David Fincher ha colto e critica nei propri lavori. La stessa stampa che, d’altronde, in Zodiac contribuisce a fare “terrorismo mediatico“, in un’epoca che ancora risente dello shock delle Torri Gemelle. Sebbene il film copra un vasto arco temporale, dalla fine degli anni ’60 a inizi ’90, precedente a quell’11 settembre 2001, può essere definito a pieno titolo figlio di questo secolo. Un secolo iniziato all’insegna del terrorismo, che ha smosso le fondamenta dell’Occidente. Insomma, David Fincher è senza dubbio il portavoce di un malessere contemporaneo. Un malessere che riesce a sviscerare in ogni sfaccettatura.
LEGGI ANCHE: “Ezio Bosso. Le cose che restano”, il trailer dell’omaggio al Maestro che arriverà a Venezia