Per definizione, la favola è una narrazione incentrata su persone, animali o cose, il cui fine è quello di far comprendere una verità morale di fondo. In che modo? Mostrando due entità perfettamente opposte, ricollegabili all’eterna dicotomia bene-male. Si tratta del contrasto per eccellenza che nel cinema di Matteo Garrone trova la sua massima espressione e le sue più grandi potenzialità. Attraverso questi due poli estremi, i suoi personaggi si muovono in uno spazio privato della temporalità, sospeso quasi nel classico “c’era una volta…“.
Quello di Garrone è dunque un cinema di tensioni estreme, fatto di luoghi-non-luoghi anche in contesti geograficamente situati – si vedano Gomorra e Dogman – che declinano un modo nuovo di fare sul grande schermo. Un modo estremamente personale e viscerale, che rende il regista romano tra gli autori nostrani più importanti della settima arte in circolazione.
Matteo Garrone, l’inizio con il documentario
Nato il 15 ottobre 1968, Matteo Garrone debutta nel mondo dell’arte fin dalla giovinezza. Dopo essersi diplomato al Liceo artistico Ripetta, infatti, intraprende una breve carriera nel mondo della pittura. Come ha dichiarato in seguito, il regista era solito recarsi al MoMa di New York, con il fine di studiare le opere d’arte esposte. L’esperienza si rivelò particolarmente significativa e determinante per la sua filmografia che, soprattutto dopo il successo internazionale di Gomorra, assistette a una composizione dell’immagine sempre più ricercata. Alla matrice pittorica si aggiunse ben presto quella documentaristica, grazie alla quale avvenne il suo debutto nell’audiovisivo. Nel 1996 realizzò il corto Silhouette che, nello stesso anno, divenne uno dei tre episodi del suo primo lungometraggio, Terra di mezzo. Le tre storie sull’immigrazione, che avevano come cornice Roma, inaugurarono il debutto di Matteo Garrone sul grande schermo.
Proseguendo sulla falsa riga di quel progetto, collaborò con Carlo Cresto-Dina per altri documentari: Bienvenido espirito santo e Oreste Pipolo, fotografo di matrimoni. Nel 1998 Matteo Garrone realizzò Ospiti, il suo secondo lungometraggio, con quale gettò le basi per il suo metodo di lavorazione, costituito da alcuni motivi ricorrenti: l’uso della cinepresa a spalla, predilezione per ambienti reali e troupe ridotte al minimo. Ancora una volta, sulla sfondo della Capitale, il regista romano ha raccontato una storia d’immigrazione, soffermandosi tuttavia sull’incertezza dei personaggi che non sulle condizioni sociali. La pretesa di realismo, ereditata dal modo di fare documentaristico, e la predilezione per le storie lontane – di matrice favolistica – divennero in breve i due poli attraverso cui il suo cinema iniziò a muoversi. Ben presto, infatti, Garrone intuì che il documentarismo era fin troppo limitante per il suo modo di intendere la settima arte.
I primi consensi con L’Imbalsamatore e Primo amore
Negli anni successivi Matteo Garrone ebbe modo di affinare la sua cifra stilistica, grazie a budget più consistenti e, soprattutto, approdando nel cinema di fiction. Il 2002 segnò, infatti, per il regista romano l’anno della svolta grazie a L’Imbalsamatore, che gli permise di vincere il David di Donatello per la Miglior Sceneggiatura. Presentata in occasione della 55° edizione del Festival di Cannes, la pellicola , di genere prettamente noir, mostrò per la prima volta il punto di vista cupo del regista, contaminato da un alone quasi pestilenziale. Il film si basava sul famoso fatto di cronaca romana dell’imbalsamatore denominato il nano di Termini. Attraverso il lungometraggio, il regista romano di prefiggeva di raccontare l’ossessione di un uomo alla ricerca della bellezza attraverso l’amore di un ragazzo.
L’interesse per il true crime si presentò nuovamente con la pellicola successiva: Primo amore, del 2004. Quell’alone mortifero continuò ad aleggiare nella sua opera, spezzato da inediti momenti di slancio vitale, in un contrasto tra le due eterne pulsioni di Eros e Thanatos. E quella ricerca ossessiva della bellezza si ripresentò, anche in questo caso, attraverso una forte attenzione del corpo. D’altronde, nelle sue inquadrature, talvolta plastiche, Matteo Garrone ha sempre posto al centro dell’attenzione la presenza umana, non solo in quanto persona ma anche nei termini di carnalità.
Matteo Garrone e il successo internazionale di Gomorra
Il successo internazionale lo travolse nel 2008, quando nelle sale cinematografiche approdò Gomorra. Basato sull’omonimo romanzo di Roberto Saviano che, anni dopo, ha ispirato la celebre serie targata Sky, ottenne sette David di Donatello – tra cui Miglior Film e Miglior Regia – il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes e la candidatura ai Golden Globes. Il progetto costituì una summa effettiva della propria poetica.
Dei personaggi, ancorati alla dimensione reale ma pur sempre fortemente caratterizzati, al limite del favolistico, si muovono in luoghi-non-luoghi, in quella che è a tutti gli effetti una favola del nuovo millennio. In sé ne contiene tutti gli stilemi ma, al contempo, è fortemente legata alla realtà, grazie al lavoro che Matteo Garrone fa con il corpo dei personaggi. Ne evidenzia le peculiarità fisiche, portandole in risalto e rendendo il racconto imprescindibile dalla dimensione carnale. Ma, al contempo, lo a-temporalizza, sospendendolo in un tempo e spazio indefinito. Gli anni successi, il regista affina maggiormente questa polarizzazione del racconto.
Da Il racconto dei racconti a Dogman: favole antiche e favole contemporanee
Nel 2015 sperimenta attraverso il fantasy realizzando, grazie a un cast internazionale – tra Salma Hayek e Vincent Cassel – Il racconto dei racconti. Basato sulla raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, si distacca per la prima volta dalla cronaca. E, di conseguenza, si lascia ispirare da storie ancestrali. Non più le favole contemporanee, ma racconti di un’antichità ormai lontana, che permette di viaggiare con la fantasia. Il tutto acquisisce un allure di universalità, insita nella fiaba, che spicca all’ennesima potenza con il suo ultimo lungometraggio realizzato, Pinocchio. Ancora una volta, rifacendosi a un patrimonio culturale condiviso – la celebre storia di Collodi – Matteo Garrone compie un viaggio nel folklore italiano, senza mai rinunciare al suo oscuro punto di vista.
Dalle favole antiche alle favole contemporanee, il regista romano non resiste a quell’epica “popolana”. Al contempo, non perde neanche il suo interesse per il true crime: è il caso di Dogman, ispirato a un altro celebre fatto di cronaca, ovvero Il delitto del canaro. Interpretato da Marcello Fonte e Edoardo Pesce, il film è stato selezionato per rappresentare l’Italia ai Premi Oscar 2019 (senza rientrare nella shortlist). Al contempo, il progetto ha ottenuto ben 9 David di Donatello e Prix d’interprétation masculine a Marcello Fonte. In una Roma periferica, desolata e cupa – sospesa ancora una volta nel tempo – si muovono le due figure opposte Marcello (Fonte) e Simone (Pietro). L’uno la nemesi dell’altro: da una parte l’uomo gracile, dall’altra “l’orco” cattivo. Il tutto nell’eterno gioco di contrasti tra realtà e favola, vita e morte che nella filmografia dell’autore romano trova la sua cifra stilistica.
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