Era il 23 febbraio 1996 quando nelle sale cinematografiche approdò Trainspotting. Secondo lungometraggio diretto da Danny Boyle, contribuì a lanciare definitivamente la sua carriera, rendendolo uno degli autori più importanti del cinema britannico contemporaneo. Non si trattava “solo” di un film ma di un vero e proprio manifesto che, insieme a Pulp Fiction, Assassini nati – Natural Born Killers e Il grande Lebowski, scandì il ritmo degli anni Novanta. Il lungometraggio, dunque, contribuì a chiudere il millennio precedente all’insegna del politicamente scorretto, in un compendio che riassumeva la cultura pop dei due decenni precedenti. E che, in fin dei conti, si presentava come una sorta di tabula rasa, in vista del Duemila, lanciando l’inconfondibile cifra stilista di Danny Boyle.
Trainspotting: il grottesco, l’umorismo nero e la frenesia del nuovo millennio che fa ancora scuola dopo 25 anni
Sebbene Danny Boyle avesse ottenuto la “benedizione” da parte dei Premi Oscar solo nel 2009, trionfando come Miglior Regista per The Millionaire – vincitore indiscusso di quell’edizione con 8 statuette totali – fu Trainspotting il “suo” vero spartiacque. Lo stesso che, da autore semi-sconosciuto ma promettente – dopo Piccoli omicidi tra amici del 1994 – lo portò ad essere tra i nomi britannici più noti, nonché vero e proprio talent scout (per aver lanciato la carriera di Ewan McGregor, prima, e Cillian Murphy dopo). Ma anche lo stesso che segnava la chiusura definitiva con il millennio. Il tutto attraverso il lungometraggio, basato sull’omonimo romanzo di Irvine Welsh, che con un black humor sfrontato contribuì a rispolverare l’immagine datata che il cinema britannico ormai ispirava nel resto del globo.
Presentato fuori concorso al 49° Festival di Cannes, il film ripercorre le vite di quattro tossicodipendenti – Mark Renton, Sick boy, Spud, Tommy – e del loro amico alcolizzato Begbie. Nella cornice di una grigia Edimburgo, le loro giornate si consumano dedicandosi a passatempi non troppo entusiasmanti – trainspotting letteralmente indica l’azione di “guardare i treni” – e alle rispettive dipendenze. Perfino l’incontro con le problematiche connesse allo stile di vita viene smorzato da un cinismo e un black humor che saranno il fil rouge dell’intera pellicola. Una pellicola che, in fin dei conti, non fa sconti a nessuno. Non offre di fatto alcun riscatto morale per ciascuno dei protagonisti. Stando anzi al monologo d’apertura, declamato da Mark Renton/McGregor – che ribadirà con una palese vena sarcastica in chiusura – non c’è via di redenzione. “Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia.” – è di fatto ciò che lui non farà mai.
Danny Boyle e la poetica dello “sballo”
“Quel libro fu uno shock perché supponeva che anche chi faceva uso di eroina si poteva divertire. Vogliono farti credere che solo gli sciocchi siano tossicodipendenti, ma non è assolutamente così! Piaccia o no, c’è un aspetto delle droghe che ti fa sentire al massimo, ecco perché ci sarà sempre qualcuno che continuerà a farsi.” A parlare è stato lo stesso Danny Boyle che, per queste stesse parole fu accusato di romanzare e, conseguentemente, promuovere il consumo di droga. Ma, in fin dei conti, la sua fu un’innovazione in termini di linguaggio, proponendo uno sguardo cinico e al contempo ironico su quel mondo, che il cinema aveva già sdoganato. E proprio dal passato, Trainspotting riprende determinati stilemi ormai consolidati, appartenenti a un patrimonio culturale condiviso.
Ciò è evidente dalla colonna sonora. Dall’intramontabile Perfect Day di Lou Reed a hit del decennio precedente, del calibro Temptation dei New Order fino a Lust For Life di Iggy Pop. Al contempo, il capolavoro di Danny Boyle denuncia anche una certa dose di citazionismo da altre pellicole. A partire dagli interni della discoteca, volutamente simili al Korova Milk Bar di Arancia Meccanica. Così come sono chiari i riferimenti a David Lynch; in particolar modo, in una tra le scene iniziali che riguardano Mark Renton, Danny Boyle ha richiamato Eraserhead, esordio del padre di Twin Peaks. Ma Trainspotting è un film che guarda avanti. Un film che al rock progressivo mischia l’elettronica squisitamente anni Novanta, che in Born Slippy degli Underworld trova il suo motivo conduttore. E, al posto del crudo realismo delle decadi precedenti – in riferimento alla tematica dell’eroina, nello specifico – sceglie la strada dell’umorismo grottesco, nero e sfacciatamente cinico. Uno stile che anche oggi, a 25 anni di distanza, fa ancora scuola, rendendo la pellicola di Danny Boyle un cult del genere.
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