Pasolini e la sua personale battaglia poetica contro il Potere del consumismo
La lotta tra scritti e immagini contro l'omologazione culturale del suo tempo
Oggi 46 anni fa moriva, assassinato, il poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, Pier Paolo Pasolini. Senza alcun dubbio rappresentò l’intellettuale del Novecento più anticonformista del suo tempo. Forse per questo risultava il più scomodo agli ingranaggi della società di quegli anni. Si ribellò a quella concezione del mondo capitalistico-borghese che dopo la Seconda Guerra Mondiale iniziò a prendere forma in Italia.
Il cosiddetto nuovo Potere consumistico secondo il poeta avrebbe finito per distruggere quelle realtà popolari e contadine, e tutti quei valori sacri e le tradizioni che il nostro Paese aveva prodotto, riducendo tutto alla logica dello sviluppo e del consumo. Oggi non si parla quasi più di consumismo, e c’è da chiedersi se quelle realtà tanto care a Pasolini esistano ancora o siano davvero morte per mano di quel Potere, capace di un’omologazione culturale tale di cui neppure il Fascismo – a dire di Pasolini – era stato capace. Un Potere che tutto annienta, e di cui lui non aveva ancora catturato interamente le sembianze.
La vittoria del consumismo
Nel consumismo Pasolini aveva scorto il volto più pericoloso e inquietante della società borghese del tempo. Nella sua versione edonista, feticista, e desacralizzante della realtà, il poeta scorgeva un nuovo fascismo, che avrebbe finito per rendere gli uomini dei bruti violenti e degli stupidi autonomi privi di veri sentimenti. La bellezza, la sacralità della vita, la spontaneità e l’ingenuità delle persone, già all’inizio degli Anni ’70, a detta dello scrittore diventavano, merce rara. Il consumismo cambiava il volto delle città grazie al boom dell’edilizia, snaturando paesaggi, prosciugando fiumi, stravolgendo l’architettura e l’identità storica dei luoghi.
Anche i costumi cambiavano, contro l’ipocrita perbenismo borghese si scagliarono intere folle di giovani a reclamare maggiori libertà e più indipendenza. Ma ciò che questi giovani non sapevano è che in realtà con le loro richieste erano perfettamente in linea con la nuova società dei consumi. Per Pasolini non fu una rivoluzione, ma una lotta intestina alla borghesia. A instaurarsi fu una morale 2.0 con nuovi riti ma con la stessa smania di ordine della precedente: una sorta di nuova chiesa, dove al posto di Dio ora vi era l’edonismo consumistico, evoluzione della prima borghesia. Chiunque fosse rimasto fuori da questo nuovo credo e nuovo stile di vita sarebbe stato prontamente emarginato e giudicato da una società ormai sempre più rozza e arida.
L’omologazione culturale del consumismo
Il consumismo non è soltanto un imperativo frenetico al consumo materiale, ma è mosso da una dinamica “perversa” capace di rendere la novità sempre più necessaria e più attraente. E il nuovo modello è venduto come la cosa in grado di renderci davvero felici e di cui abbiamo più bisogno.
L’uomo immerso in una concezione consumistica della vita, desidera esaudire al più presto i suoi desideri, appagare i propri sensi, inseguire l’edonismo in tutte le sfere dell’esistenza. La società dei consumi rende tutto merce, tutto superfluo, tutto banale, come recitava un noto slogan di un brand degli Anni ’70 su cui si soffermò a riflettere lo stesso Pasolini: “non avrai altri jeans al di fuori di me”. Il consumismo aveva in seno questo potere, il potere di svuotare di ogni significato le parole ed più sacri valori senza destare scalpore. Per il poeta nulla storicamente aveva ottenuto un tale potere tanto distruttivo e totalitario. Un potere capace di attuare un processo di omologazione culturale in cui la televisione ha svolto un ruolo centrale.
Pur usufruendo del linguaggio cinematografico per opporsi al potere, Pasolini osteggiò fortemente il mezzo televisivo, giudicando come dittatoriale il rapporto spettatore-protagonista. Lo spettatore finisce necessariamente per credere che ciò che viene mostrato in televisione sia vero, e tenderà dunque ad imitare inesorabilmente quei comportamenti e a prenderli come esempio. Questo accadeva a discapito di tutti “quegli altri modi di essere uomo”, scriveva Pasolini, che nascono e si consolidano invece istintivamente nella quotidianità della vita. C’era il rischio dunque di perdere abitudini, costumi, parole, modi di dire perfino, di muoversi, non “istituzionalizzati”, ma tramandati nella storia. L’appello al tentativo di tornare figli dunque di un vissuto e non del mero spettacolo.
Film e scritti come strumenti della battaglia per Pasolini
Pier Paolo Pasolini attraverso i suoi film, i suoi scritti, ha trascorso l’intera esistenza ad avvertire le masse riguardo questo imminente pericolo: di perdere l’identità, le tradizioni che ci appartengono di più, i valori che ci distinguono maggiormente, a favore di una logica vuota ed edificata al solo scopo di nutrire un sistema economico, allora in via di sviluppo, che voleva ridurre tutto ad oggetto.
In questa logica si oppose all’aborto. A suo giudizio i tanti rimedi anticoncezionali sul mercato, mostravano come anche il dibattito sul tema l’ennesimo effetto di quella logica consumistica. Il suo potere era tale da trasformare anche l’amore e l’atto sessuale in qualche cosa da commercializzare e desacralizzare.
Il potere consumistico, costruito dall’alto si spiega(va) a favore delle élite neo-capitaliste, contro quelle culture o sub-culture umili e senza voce che PPP (acronimo del poeta) aveva cercato di difendere in nome di un tempo in cui le cose era possibile aggiustarle, quando avevano un valore prima che un prezzo. Un tempo e un mondo in cui la realtà e l’emotività delle persone superava i tempi imposti dalle mode. Era quello il mondo che Pasolini voleva difendere.
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