“Non vedo i film della Marvel, ci ho provato. Ma non sono cinema.” Era il 4 ottobre del 2019 quando, in un’intervista rilasciata per Empire, Martin Scorsese aveva sentenziato riguardo i cine-comic provenienti dagli Studios con a capo Kevin Feige. Newyorkese di nascita, italiano d’origine – da parte dei nonni sia paterni che materni – il regista ha poi ritrattato. O, per meglio dire, ci ha provato.
Attraverso un recente editoriale, pubblicato sul New York Times, ha difatti spiegato le ragioni dietro alla sua dura constatazione, rivelando: “So bene come molti di questi film siano realizzati da persone di notevole talento. Il fatto che non mi interessino è soltanto una questione di gusto personale.” – ha svelato Martin Scorsese, andando a fondo nella sua presa di posizione “contro” lo strapotere della Marvel – “Non c’è rivelazione, mistero o autentico pericolo emotivo. Niente è a rischio. Le immagini sono realizzate per soddisfare una serie specifica di esigenze e sono progettate come variazioni su un numero finito di temi.”
La domanda – provocatoria, in un certo senso – sorge spontanea: cosa intende dunque Martin Scorsese con “cinema”? A rispondere ci ha pensato lo stesso autore, da oltre mezzo secolo. Precisamente dal 1967, quando debuttò alla regia di Chi sta bussando alla mia porta. È stato così, infatti, che ha fatto il suo ingresso nella settima arte.
Martin Scorsese e il cinema rivoluzionario che risente di Fellini
Inutile girarci intorno: Martin Scorsese appartiene alla “vecchia” scuola. Quella che ha attraversato i fermenti rivoluzionari di derivazione sessantottina. La stessa che ha ribaltato l’età classica, portando sul grande schermo la crisi dell’età moderna, attraverso la complessità di personaggi sfaccettati. Il Travis Bickle (interpretato da Robert De Niro) di Taxi Driver, Palma d’Oro al 29° Festival di Cannes; il celebre Jake LaMotta, soprannominato Il Toro del Bronx e Toro scatenato, in Raging Bull (Toro Scatenato, per l’appunto), che vede ancora una volta De Niro; un controverso Gesù Cristo (Willem Dafoe) in L’ultima tentazione di Cristo e i mafiosi in Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990) sono solo alcuni esempi a tal proposito.
Ma il suo è anche – e soprattutto – un cinema colto, che guarda a modelli specifici, anche lontani da lui. Non si “limita” infatti a descrivere la complessità a lui contemporanea, ma cerca sempre nuovi strumenti per reinterpretarla in nuove chiavi. Poggiando lo sguardo, talvolta, anche nel nostro Paese. In particolare, come lo stesso regista ha ammesso: “È stato Fellini a spingermi verso il mio cinema. Ci sono pochi registi che hanno allargato il nostro modo di vedere e hanno completamente cambiato il modo in cui sperimentiamo questa forma d’arte. Fellini è uno di loro. Non basta chiamarlo regista, era un maestro.”
Per Martin Scorsese, un film in particolare è stato un vero e proprio spartiacque nella storia del cinema, ovvero La dolce vita. A tal proposito, ha affermato: “Nella mia mente i film si dividono tra quelli fatti prima de La dolce vita e quelli dopo. La dolce vita ha rotto l’unità delle regole della narrazione grazie alla sua audacia. Ha cambiato la storia.
In Hugo Cabret c’è tutto Martin Scorsese: una lettera d’amore per il cinema
Ma dietro tutte queste storie che, spesso, seguono la discesa verso il baratro dei protagonisti o la loro appartenenza alla criminalità organizzata, Martin Scorsese denuncia un grande amore per la settima arte. Talvolta assume una funzione citazionistica (come nel caso della locandina di The Texas Chainsaw Massacre visibile in Taxi Driver). Talvolta, invece, diventa una vera e propria dichiarazione d’amore al dispositivo cinematografico. È il caso, questo, di Hugo Cabret.
“È vero il mio film Hugo è una lettera d’amore al cinema. In esso si intrecciano immaginazione, sogni e magie attraverso la storia e la riabilitazione di Georges Méliès, il secondo pioniere del cinema, dopo i fratelli Lumière.” A parlare è proprio Mr. Scorsese che, cinque anni prima dell’uscita della pellicola, aveva vinto il Premio Oscar come Miglior Regista per The Departed – il bene e il male. Prima ancora di essere il celebre Otis Milburn dell’acclamata serie Netflix Sex Education, Asa Butterfield è stato il piccolo protagonista che ha dato il titolo al film, uscito nel 2011. Sono gli anni ’30 e il giovane orfano Hugo vive nella stazione ferroviaria di Parigi, coltivando il sogno di diventare un grande illusionista. Dal padre ha ereditato la passione per il cinema. Quest’ultima, per un caso fortuito, lo porterà a conoscere il proprietario di un negozio di giocattoli, Georges Méliès.
Il capolavoro di Martin Scorsese è a tutti gli effetti un ipertesto. Nel suo dispiegarsi, la pellicola conduce lo spettatore attraverso diverse direzioni, il tutto grazie alla meraviglia del cinema. Le numerose citazioni, da L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat dei fratelli Lumière a Metropolis di Fritz Lang, non sono mai fini a se stesse. Nel loro ricorso risiede l’intenzione del regista di comunicare il suo stesso stupore di fronte alla possibilità che il cinema ha di creare realtà e mondi nuovi. Così come di risollevarsi dal proprio baratro, come Georges Méliès (non diversamente un Travis Bickle, in fin dei conti) cerca di fare. Riscatto sociale, amore per la settima arte: Hugo Cabret è Martin Scorsese.
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