Chi ama i romanzi rosa conoscerà sicuramente Anna Premoli. Da anni, scrive romanzi con la Newton Compton Editori. Le sue sono storie di donne moderne, che cercano di soddisfare le proprie ambizioni e – perché no? – trovare anche il Principe Azzurro. L’amore arriva anche quando non lo si cerca ma, in ogni caso, Anna Premoli ha saputo fare di questo genere letterario la sua casa, un porto sicuro per tutti quei lettori che aspettano con spasmodica ansia l’uscita di un suo romanzo.
Ancora oggi, l’autrice prova una genuina sorpresa nel completare una sua opera. Ci ha anche raccontato che il suo primo romanzo, Ti prego lasciati odiare, era nato per pura casualità e, allo stesso modo, era arrivato alla fase di pubblicazione. Figurarsi quindi l’idea di vincere un riconoscimento tanto ambito e prezioso come il Premio Bancarella, e per di più agli esordi. Una soddisfazione dopo l’altra hanno condotto Anna Premoli verso la corona delle scrittrici rosa più amate dagli italiani e, in vista del suo ultimo romanzo Non sono una signora, noi di VelvetMAG abbiamo avuto il piacere – e l’onore – di intervistarla.
Intervista esclusiva ad Anna Premoli
Partiamo da Non sono una signora: la scelta del titolo è volutamente ispirata alla canzone di Loredana Bertè?
Ammetto di avere poca fantasia. I miei titoli (a parte i primi due che derivavano dall’autopubblicazione) li lascio scegliere al mio editore, Raffaello Avanzini. In questo caso è stato “Non sono una signora”, che non credo sia stato ispirato direttamente dalla canzone, ma in realtà ci sta bene! Mi è piaciuto subito, perché si sposava bene con la personalità della protagonista che avevo in mente. È stata una scelta abbastanza semplice. In genere battagliamo un po’ di più, ma in questo caso c’è stata subito un’unione di intenti.
E invece l’idea di questa storia da dove arriva?
Parte alla lontana, perché questo è il quarto romanzo di una serie dedicata alle scrittrici di rosa di vario tipo (contemporaneo, storico, avventuroso). Audrey è una scrittrice di romanzi erotici, per cui ho voluto concludere in bellezza con lei, che avevo lasciato indietro da un po’ di tempo. Dovevo essere in un mood giusto per riuscire a dar vita a un personaggio così scoppiettante e allo stesso modo così ben inquadrato. Ho atteso un po’, qualche anno è passato, nel frattempo ho scritto altre cose e all’inizio di quest’anno mi sembrava essere arrivato il momento giusto per dare voce a Audrey.
Quanto è stato difficile scrivere questo romanzo, considerando le tematiche affrontate?
Temevo lo sarebbe stato molto di più, proprio perché si toccano svariate tematiche, anche non banali. Per quanto si cerchi di raccontare le cose con il sorriso, il messaggio che si vuole dare passa sempre, anche all’interno di una commedia. Per fortuna è stato tutto più semplice di quello che temevo. Credo che la ricetta vincente alla fine sia stato dire tutto in maniera chiara, ma senza estremismi. Io non sono una grande esperta di religione. Per quanto abbia cercato di approfondire le mie personali conoscenze studiando, ero conscia del fatto che la mia conoscenza arrivasse fino ad un certo punto. Uno dei motivi per cui ho atteso un po’ di anni per scrivere questo romanzo è perché l’idea un po’ mi spaventava. Sapevo dove volevo andare a parare e anch’io temevo che sarebbe stato complicato, volevo aspettare il momento perfetto. Ma, come nella vita, un momento perfetto non c’è mai e quindi ho preso coraggio affrontando la tematica.
Come hai inserito i libri scandalosi del passato in questo romanzo?
Ero certa di voler indagare la questione dei libri scandalosi, mi è venuta la voglia di tornare indietro nel tempo e di vedere come si è evoluta questa tematica negli anni. Ed è stato un viaggio interessante anche per me. Ho ripreso romanzi che avevo letto tanto tempo fa e di cui avevo un ricordo e volevo vedere se era ancora così. È stato stimolante e divertente scrivere questo romanzo.
Il tuo primo romanzo, Ti prego lasciati odiare, ha vinto il Premio Bancarella. Come hai vissuto quel momento?
Con grande incredulità. Ancora oggi se ci penso e guardo il premio che ci siamo portati a casa è come se non fosse successo a me. Questo perché è tutto nato in modo molto fiabesco. Sono arrivata alla pubblicazione in modo molto casuale, così come alla scrittura. Sono accadute tante cose che, non dico contro il mio volere ma quasi, quando sono arrivata alla serata della premiazione ho avuto la sensazione di una fiaba. Ogni tanto le cose belle ti accadono e, a distanza di anni, sono ancora incredula.
Quindi quando hai iniziato questo percorso d’autrice non pensavi che avresti ottenuto così tanto successo?
Non pensavo neanche mai di pubblicarlo questo romanzo che scrivevo per passare il tempo. Scrivere un libro non è mai stato un sogno nel mio cassetto e pubblicarne uno mi sembrava una realtà così lontana che, quando mio marito mi ha proposto il self publishing, io per un lungo periodo non volevo neanche pubblicarlo. L’avevo scritto come un modo per staccare la spina, per divertirmi, non avevo come scopo la pubblicazione.
Certo, scrivere mi è sempre piaciuto, ho letto tantissimo e scritto temi e diari, ma non avevo la consapevolezza di riuscire a terminare un romanzo. Anche adesso, ogni volta che riesco a portare a termine una storia, rimane sempre questo stupore dell’esserci riuscita. È una cosa che non do mai per scontato. Nonostante ne abbia scritti parecchi, il mio è uno stupore genuino. È una spinta positiva che ho preservato sin dall’inizio. Dare per scontato questa sensazione non avrebbe fatto bene alla mia scrittura. Cercare di trattarla come se fosse un piccolo miracolo mi aiuta a mantenere la freschezza e la gioia di scrivere.
Anna Premoli è uno pseudonimo?
Il nome è il mio. Premoli è il mio cognome da sposata, quello di mio marito. All’epoca ho scelto di pubblicare con il suo cognome in modo da tenere separate le due strade, volevo tutelare la privacy anche per il mio lato professionale. In più mio marito era stato il fautore della mia pubblicazione, aveva insistito tanto, e quindi ho scelto di pubblicare con il suo cognome.
C’è chi ti paragona a Sophie Kinsella, scrivendo entrambe lo stesso genere. Hai mai letto qualche suo romanzo?
Grande onore per me! La Kinsella ha lanciato questo genere rosa irriverente. Ho letto qualche libro suo un po’ di anni fa. Gli ultimi no, perché confesso che ho un problema con le sue protagoniste. In genere succede loro di tutto, come se la cosa peggiore capitasse sempre a loro, ed è un’ironia su cui rido, ma a volte forzatamente. A me piace che le donne subiscano meno, ma siano loro a dettare quello che succede. Preferisco eroine un po’ più consapevoli. La mia è un’opinione personale, perché lei è bravissima e l’ironia british è deliziosa. Quei pochi romanzi che avevo letto erano in inglese proprio perché c’è un bel modo fluido di costruire la frase, che mi piace moltissimo.
Ti piacerebbe scrivere un romanzo diverso, fuori dalla tua comfort zone?
Da lettrice sono onnivora e anche grande amante dei gialli. Mi piacerebbe moltissimo trovare lo stimolo per scrivere un giallo, però so anche che servirebbe una metodologia di scrittura differente, perché va pianificato dall’inizio alla fine ancor prima di scrivere. La mia scrittura non funziona in questo modo. Tuttavia è un genere che mi affascina molto. Negli ultimi anni, confesso, che lato lettura ho letto molto poco rosa, forse perché scrivendo già gli dedico molto tempo. Lo stimolo arriva da tante parti, la mia curiosità è tanta e, visto che scrivo un genere un po’ più specifico, da lettrice cerco di andare anche su cose che sono al di fuori delle mie corde.
Di tutti i romanzi che hai scritto finora, qual è quello che ti ha creato più difficoltà?
Io mi metto a scrivere solo quando sono molto convinta. Siccome scrivere non è la mia professione primaria e faccio altro per tante ore della mia giornata, sono molto attenta a scrivere una storia solo nel momento in cui sono abbastanza certa di potercela fare. Piuttosto che bloccarmi, magari la posticipo e scrivo altro. Il tempo è scarsissimo ed è un peccato buttare via delle ore senza concludere niente. Deve essere un momento che mi rilassa e mi dà soddisfazioni. Per il momento ha funzionato questo meccanismo: una forte convinzione iniziale che mi serve per tutta la stesura. Così, quando provi un po’ di fatica, è quello che ti sprona ad andare avanti.
Non hai mai avuto il terrore della pagina bianca?
Se ci sono periodi in cui non riesco a scrivere, non me ne faccio un cruccio. Non ho la necessità di riempire le giornate con la scrittura, ho il privilegio di poter fare altre cose, quindi va bene così. Mi metto a scrivere solo quando sono certa di voler raccontare quella storia, nel miglior modo e tempo possibile. Sono determinata e mi prefiggo degli obiettivi giornalieri, non amo perdere tanto tempo. Questo metodo per me funziona: non forzo la scrittura se ho la testa occupata con altro o se non sono pienamente convinta della storia.
Parliamo invece di Tutto a posto tranne l’amore: come mai hai scelto di inserire la pandemia nella tua storia?
Personalmente, era stato un modo per esorcizzare il momento. Avevo iniziato a scriverlo a due/tre mesi che era scoppiata la pandemia e avevo sentito di tante persone che scrivevano come se nulla fosse successo. Per quanto i romanzi o le commedie rosa possano essere “delle fiabe moderne”, sono sempre ben definite all’interno di un contesto che io cerco di rendere il più reale possibile. In quel momento la pandemia mi sembrava un elemento talmente grande che ha influenzato così tanto la nostra vita che ignorarlo del tutto, anche dal punto di vista di scrittrice, sarebbe stata una forzatura o un voler chiudere gli occhi davanti al momento.
Ho pensato che potesse essere un modo per me per interiorizzare il tutto e per rielaborare quello che stavamo vivendo, ma che avrebbe potuto aiutare anche qualcun altro che stava facendo fatica. Quel vivere quei momenti segregati in casa ha stravolto tanti equilibri sentimentali, di coppia, di amici, di famiglia. Mi sembrava una cosa così forte che ignorarla del tutto sarebbe stato un po’ volersi girare dall’altra parte e non affrontare il problema. Mi ha aiutato, mi ha sbloccato e scriverne mi ha aiutato a mettere a fuoco la questione.
Le protagoniste dei tuoi romanzi sono donne moderne, che puntano alla carriera e all’amore. Credi nella solidarietà tra donne?
Io ci credo. Ho avuto la fortuna di incontrare donne eccezionali, anche nel mondo del lavoro. Mi rendo conto che il mio è un mondo finanziario, dove ci sono perlopiù uomini. E le donne, che sono poche, ci provano a fare squadra. Qualcuno che lavora in ambiti più femminili mi dice che non è sempre così. In quello credo che noi donne dovremmo prendere d’esempio gli uomini, che riescono a fare squadra un po’ ovunque. Questa componente maschile dovremmo interiorizzarla e spero che man mano lo si faccia. Per la mia personale esperienza, negli ambienti in cui la presenza maschile è maggiore le donne fanno bene squadra e si riesce a lavorare benissimo.
Il 25 novembre ricorre la Giornata contro la violenza sulle donne. Cosa si dovrebbe fare per sensibilizzare di più su questo tema?
È una questione culturale e sociale. Deve proprio passare, sin dalla tenera età, che certi atteggiamenti non sono più accettabili. La violenza non è solo fisica, è anche verbale. Dovremmo insistere, quando tiriamo su le nuove generazioni, che imparino che certe cose non possono passare e non sono accettabili. Ci vuole un po’ di mentalità e cambiamento da parte della società. Più se ne parla, meglio è. Ogni volta bisogna accendere la luce sul fenomeno proprio perché i nostri figli sappiano benissimo che bisogna cambiare atteggiamento.
Come inciampare nel Principe Azzurro è ambientato in parte in Corea del Sud, hai visto Squid Game? Cosa ne pensi?
Non è il mio genere, ma l’ho visto proprio perché si parlava tanto di Corea del Sud. Io ne avevo parlato tanti anni prima quando non se la filava nessuno. Ho voluto vederla perché all’epoca avevo studiato molto bene la società coreana, avevo visto anche tanti drama coreani (e all’epoca trovarli in streaming era molto più complicato). Io, ad esempio, ho un figlio di 12 anni che va in seconda media e non gliela farei mai vedere. Non tanto per una questione di splatter, ma perché c’è tutto un messaggio sociale importante che non va banalizzato e che loro non riescono ancora a comprendere.
Che la Corea del Sud abbia un forte problema di classi sociali è una cosa nota, chi segue la Corea da tempo lo sa. Infatti anche Parasite affronta queste tematiche. Ho trovato valido il messaggio della serie, credo che metta bene in luce i limiti tra le due classi. È giusto parlarne, ma non la trovo adatta ai ragazzini. Certo, non sono d’accordo a vietarla ai minori di 18 anni perché loro maturano molto prima, ma la destinerei dal liceo in poi.
Hai altri sogni nel cassetto?
Ho dei viaggi del cuore che vorrei fare e spero che quanto prima si potrà riprendere, perché ci sono tanti posti che vorrei vedere. Ad esempio mi piacerebbe andare in Giordania a vedere tutte le rovine, è uno dei miei viaggi del cuore. Mi piacerebbe andare anche in Giappone. In generale vorrei trovare un po’ di tempo per me stessa, perché ho trascorso gran parte della vita lavorando. Vorrei imparare a godermi un po’ di più il tempo, ritagliare uno spazio per me stessa e godermelo viaggiando.
Progetti per il futuro?
Sono una grande lavoratrice e mi ritengo molto fortunata, quindi mi auguro di continuare su questa strada. Trovare sempre sfide che mi appassionino, che mi divertano e che mi aiutino a imparare cose nuove. Il lavoro che faccio oggi mi permette di vedere tantissime realtà ed è molto stimolante. Spero che anche la scrittura mi dia sempre spunti buoni e divertenti. È un buon momento, a prescindere da tutto.
E novità sul fronte scrittura?
Sto terminando un romanzo e ho un’altra idea che mi frulla per la testa. Non appena avrò ricaricato le pile, ricomincerò a scrivere. Per fortuna c’è sempre qualcosa che mi stimola ad iniziare storie nuove.
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