In Afghanistan la mortalità materna è 99 volte più alta di quella registrata in Italia. Il tasso
di mortalità infantile 47 volte più alto. Una donna su 14 muore per complicazioni legate alla
gravidanza, mentre un bambino su 18 muore prima di compiere i 5 anni. Questo accade spesso a causa delle difficoltà di accesso alle cure mediche dovuta all’insicurezza del conflitto, o alle resistenze delle famiglie per via dei tabù religiosi e culturali. Come anche ai costi da sostenere e alle distanze da percorre. Questa è anche l’Afghanistan che è oltretutto, un pezzo importante per la storia di EMERGENCY.
Un sodalizio con il paese, potremmo definirlo, che dura ormai da 20 anni. L’obiettivo di Laura Salvinelli si è avvicinato ad un passo di quello che viene definito tabù: il sangue di un parto. Il corpo di una donna. Cogliere l’attimo del primo gemito di un bambino e fissarlo in un’immagine dentro una sala operatoria, e sentirsi esattamente come un elefante in un negozio di cristalleria.
Laura Salvinelli dalla pellicola al digitale: vite da raccontare
Fotografa e ritrattista di attori e musicisti dal 1982, amante dei viaggi in Oriente, per lei l’11 settembre 2001 rappresenta una svolta. Quel desiderio di trasformare l’estetica in etica la porta a mettersi a disposizione del mondo umanitario. Appena può, parte per l’Afghanistan e realizza reportage collaborando con diverse organizzazioni umanitarie. Chi ha incontrato chi, per la prima volta, è un’informazione quasi secondaria, quando dall’incontro è nata una nuova sinergia. EMERGENCY è nella vita della fotografa quanto quest’ultima lo è nell’associazione umanitaria. L’una dona all’altra. E in uno dei suoi ultimi reportage c’è un incrocio di vite che viene documentato su una delle terre più delicate dell’Asia meridionale.
Questa è AFGHANA. Oggi una mostra apparsa in anteprima nella sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Noi, di VelvetMAG, abbiamo incontrato Laura Salvinelli e conosciuto attraverso la serie fotografica esposta, le sue donne, le mani sapienti che hanno dato vita alla vita stessa, e quei bambini che sono nati in un paese sempre in guerra. La mostra fotografica AFGHANA documenta quella che a molti era sembrata “una pazzia” – spiega Virginia Vicario – ovvero la scelta di EMERGENCY di dare vita a un centro di maternità nell’isolata Valle del Panjshir. Avviato nel 2003, il centro si è dimostrato una struttura necessaria per la salute materno-infantile dell’area offrendo gratuitamente assistenza ginecologica, ostetrica e neonatale. Il centro, non riguarda soltanto la prevenzione e l’assistenza sanitaria, ma è anche un polo formativo per il personale femminile afghano.
“La fotografia è figlia di un dio minore, non se ne parla mai. Si parla di contenuto, ma è pur sempre uno strumento, un tipo di scrittura con la luce”. Come se stesse componendo una prefazione, Laura Salvinelli ci racconta la sua fotografia. Tutto quello che ruota attorno ad un mezzo così potente anche se, per alcuni o per molti, considerata appunto figlia di un dio minore. Ma, per fortuna è altrettanto notevole quanto spesso si sia testimoni o spettatori di un racconto nato attraverso una singola prospettiva dettata dalla l’unico mirino che ci permette di farlo: la macchina fotografica.
Intervista esclusiva a Laura Salvinelli. La fotografa ci presenta AFGHANA
Tecnica ed emozione. Sono le colonne portanti di un reportage. Fino al 2007 ha lavorato su pellicola, ma quel è stato il lavoro fotografico dove ha avuto più difficoltà?
Credo che la serie del parto sia stata la più difficile. I parti cesarei che ho fotografato nel centro di maternità nell’isolata Valle del Panjshir, sono parti di estrema urgenza dove ci potevano essere problemi di salute per la mamma, per il nascituro o per entrambi. Quindi, appena uscito il bambino avevo una manciata di secondi per poter scattare queste foto. Non sapevo in che posizione potesse uscire, e non solo. In quel brevissimo frangente di tempo, io dovevo scattare il bambino che passava sotto il faro di luce. La più brutta del mondo è la luce del tavolo operatorio. Una luce cruda, verticale, dura, contrastatissima. Quindi, per far si che la zona d’interesse non fosse bruciata, aspettavo che il bambino venisse messo in una posizione tale da non prendere tutta quella luce.
Ai fini di una corretta esposizione come gestivi tempo-diaframma e ASA?
Tempo velocissimo, a un ottocentesimo, un millesimo di secondo. Tanti ASA perché volevo la profondità di campo. Ho deciso di esporre il bambino sotto la luce e sottoesporre tantissimo le pareti perché fredde, bianche. Con questi dati il resto della stanza veniva quasi nera. E quest’effetto che i soggetti appaiono come se venissero dall’ombra è reale. Parliamo di fotogiornalismo puro.
Quello che ho esposto qui in galleria (Auditorium Parco della Musica dal 14-24 ottobre 2021, ndr), è una serie fotografica autoriale sul parto. Per quanto riguarda il resto delle foto, quelle più descrittive, io mi metto al servizio dell’organizzazione umanitaria, in questo caso EMERGENCY. Chiaramente anche lì c’è il mio amore per la pittura, la mia esperienza in 30 anni di camera oscura. Il mio amore sconfinato per la luce. So che la luce è il mio strumento. Viene prima del soggetto per me.
AFGHANA, il sangue della vita un tabù: “Perché le foto di una strage e non di un parto?”
Dal racconto fotogiornalistico alla serie autoriale fatta di ritratti, spesso contestualizzati.
Sì, esattamente. Io mi sono scelta un tema e l’ho approfondito rispettando il contesto, la cultura, le persone. Nessuna di quest’ultima è stata costretta. La fotografia alla donna è infatti vietata. È un tabù. Non a caso, le difficoltà ci sono state, devo dire la verità. Ma sai, bisogna accoglierle e vederle come sfide. E uno degli “scogli” da superare era dimostrare i parti col sangue. Non sono pochi coloro che li fanno in bianco e nero. Esiste il tabù del corpo reale delle donne, del sangue della vita, ma i giornali possono sguazzare col sangue della morte. Tu dici: “Ho le foto di una strage, te le mettono in prima pagina”. “Ho le foto di un parto o del sangue mestruale delle donne”, ed è impensabile.
Come è nato il rapporto con EMERGENCY?
Dopo l’11 settembre ho deciso di dedicare il mio lavoro alle organizzazione umanitarie. Appena ho potuto, sono partita per l’Afghanistan. Ci sono stata sette volte, ma come il paese dell’Asia meridionale, sono stata in tantissimi altri posti. Nel primo viaggio ho conosciuto EMERGENCY anche se inizialmente non sono andata su incarico loro. Li ho visti varie volte sul campo, come il Sudan. Finché poi non ho avuto un incarico, ovvero di fare un reportage in Sierra Leone. Qualche anno fa, è arrivato poi l’Afghanistan.
Per tanti anni ho lavorato al servizio delle donne. Ho seguito la salute riproduttiva delle donne, indissolubilmente legata ai loro diritti o alla mancanza dei loro diritti. Il mio servizio di Natale del 2019 Il corpo delle donne afghane, nasceva da mia riflessione: si sta per parlare ancora di burka da decenni, ma mai nessuno che ha parlato del corpo delle afghane, laddove la maternità è il punto centrale di queste donne. Tutta la loro vita punta a quello. È il loro momento clou. E quindi – mi dicevo – andiamo a vedere come partoriscono. Parliamo con le loro ginecologhe.
La dottoressa Keren Picucci mi raccontava che ci sono due categorie di donne. Le nomadi Kucì libere come mammiferi in natura, che vivono la totale identificazione con il loro corpo. Le altre donne invece, sono sì, forti perché resilienti, ma pudiche e dunque non ribelli. Sono costrette da una tradizione che annienta il loro corpo. Concludo dicendo che, tale “dualismo” è anche l’Afghanistan, e penso che questo racconto fotografico possa raccontare più del burka.
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