Per tutto il mese di novembre noi di VelvetMAG abbiamo affrontato diversi aspetti connessi alla violenza di genere. Abbiamo ritenuto fosse il modo migliore come giornalisti di onorare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. I fatti di cronaca dimostrano, nonostante il mobilitarsi di tante persone, le attività e le campagne, come i casi di violenza non diminuiscano.
Una delle armi più forti per favorire quel cambiamento culturale che riteniamo necessario, è incrementare le informazioni sul fenomeno. Con questa intervista vogliamo esplorare quelle prettamente giuridiche che possono aiutare e confortare le vittime. Per questo abbiamo incontrato la Professoressa Ilaria Merenda, docente di Diritto penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre.
Intervista esclusiva di VelvetMAG alla Professoressa Ilaria Merenda
Quali sono gli strumenti legislativi a tutela delle donne che subiscono violenza?
Varie modalità di intervento cooperano su piani diversi. Innanzitutto, dal 2013, in attuazione della Convenzione di Istanbul del Consiglio di Europa, il Governo adotta un piano triennale sulla violenza contro le donne.
In cosa consiste questo piano triennale, ce ne parli?
È un piano di azione integrata che opera in primo luogo sul versante preventivo, utilizzando come strumenti essenziali l’informazione e la sensibilizzazione della collettività. L’obiettivo è rafforzare la consapevolezza e la cultura degli uomini e, in particolare, dei giovani, attraverso adeguate campagne di comunicazione, anche all’interno delle scuole. Perché il fenomeno della violenza sulle donne ha chiaramente delle origini antiche e trova terreno fertile in quell’approccio sessista che purtroppo è ancora presente in molti ambiti della vita sociale del nostro Paese. La formazione e l’educazione delle nuove generazioni ai valori del rispetto e della parità di genere è quindi un passaggio ineludibile e di centrale rilevanza.
Sono previste inoltre specifiche misure volte a migliorare l’aspetto della protezione delle donne, anche attraverso il potenziamento degli strumenti repressivi, e a garantire una migliore attività di assistenza e sostegno alle vittime di violenza e ai loro figli.
Questo è uno degli aspetti più delicati. Questa assistenza in cosa consiste?
Punta in primo luogo a potenziare i Servizi territoriali e i centri regionali anti-violenza. Dobbiamo infatti considerare che la violenza sulle donne è in molti casi di tipo intra-familiare e quindi bisogna mettere la vittima nelle condizioni di non sentirsi isolata. Deve trovare dei punti di riferimento esterni alla sua cerchia sociale, ai quali gradualmente affidarsi per cercare di uscire da una condizione che spesso è innanzitutto di enorme solitudine. E’ centrale un’adeguata formazione di tutti gli operatori – forze di polizia, operatori sanitari, assistenti sociali – coinvolti a vario titolo in un fenomeno che per le sue peculiarità richiede professionalità altamente specializzate.
Passando all’aspetto della repressione, quali sono i reati collegati al concetto di violenza contro le donne?
L’omicidio, la violenza sessuale e lo stalking sono senz’altro tra quelli più eclatanti, ma anche i maltrattamenti in famiglia, dove in moltissimi casi si genera la violenza di cui sono vittime, con comportamenti che si ripetono nel tempo e pongono la donna in uno stato di completa soggezione rispetto al partner abusante. Il maltrattamento può consistere in violenze fisiche (percosse o lesioni), ma può trattarsi anche di minacce, ingiurie, e cioè comportamenti che integrano una violenza psicologica.
Quest’ultima è molto subdola, perché esternamente meno percepibile, ma non per questo meno grave di quella fisica. Il problema è che spesso la stessa donna che la subisce non si rende conto di esserne vittima. Spesso patiscono uno svilimento continuo delle proprie capacità, o vivono un profondo senso di inadeguatezza interiore, che le può portare quasi a convincersi che quello che sta accadendo, tutto sommato, se lo siano meritato.
Cosa prevede il c.d. Codice Rosso approvato nel 2019?
Il Codice rosso ha operato in primis un potenziamento sul piano repressivo, attraverso l’introduzione di nuovi reati, come il cosiddetto “revenge porn”, che consiste nella diffusione illecita di video o immagini sessualmente espliciti senza il consenso della persona rappresentata. Ciò integra una gravissima violazione della sua sfera intima. È stata anche inserita un’ipotesi speciale di lesioni che riguarda la deformazione dell’aspetto della persona, mediante uno sfregio permanente del viso. Questo fa chiaramente riferimento ai gravissimi fatti di cronaca di donne sfigurate con l’acido da ex partner, che non si rassegnavano alla fine della relazione e volevano annullarne la dimensione umana e relazionale della loro vittima.
Sul versante procedurale velocizza l’instaurazione del procedimento penale per i delitti di violenza domestica e di genere. Ciò permette di accelerare l’eventuale adozione di provvedimenti di protezione a favore delle vittime, consentendo una tempestiva attivazione anche delle misure cautelari necessarie. Come ad esempio, l’allontanamento dalla casa familiare del partner violento oppure il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima.
Quali sono le tutele previste per le vittime durante il processo?
Le donne vittime di violenza hanno diritto all’assistenza legale a carico dello Stato, a prescindere dal loro reddito a differenza di quanto avviene normalmente in materia di gratuito patrocinio. Questo per incentivare le denunce da parte delle donne e ci sono fondi di indennizzo per le spese sostenute, come ad esempio quelle sanitarie.
Durante il processo la donna può essere considerata una “vittima vulnerabile”, e cioè un soggetto che, per il tipo di violenza subita e per le sue personali caratteristiche, deve essere tenuta al riparo dalla c.d. “vittimizzazione secondaria”. L’obiettivo è evitare che il processo diventi una “nuova violenza”, ricordando quanto subito. Si utilizzano infatti diversi strumenti di tutela che riguardano ad esempio la testimonianza, che avviene con modalità “protette”. Per impedire il contatto tra la vittima e l’aggressore e per evitare che la donna possa essere condizionata nel contenuto delle sue dichiarazioni.
Quanto tempo ha una donna per denunciare una violenza?
Per la violenza sessuale il Codice Rosso ha aumentato il tempo previsto per presentare la querela fino ad un anno. Si tratta, infatti, di reati perseguibili a querela e quindi è dalla donna che deve partire la denuncia, ed è il titolare del diritto leso che deve decidere se esporsi al processo oppure no. Per lo stalking invece è di sei mesi. Ci sono però delle peculiarità: nella violenza sessuale la querela è irrevocabile. Questo per evitare che la vittima possa subire ulteriori violenze da parte dell’autore del reato al fine di costringerla a ritrattare le sue accuse.
Nello stalking, invece, non è irrevocabile, ma per poter essere ritirata il procedimento di revoca deve avvenire davanti al giudice, che verifica la volontarietà della remissione e l’assenza di condizionamenti esterni. Anche sul regime della querela quindi ci sono delle attenzioni proprio perché si tratta di un contesto particolarmente delicato, rispetto ad altri reati.
Secondo lei concretamente con il tempo è migliorata la tutela delle donne vittime di violenza?
Si stanno facendo dei passi avanti, grazie alla maggiore sensibilizzazione e ci sono progressi anche dal punto di vista culturale. Un dato molto significativo, a mio avviso, è che stanno aumentando le denunce di violenza, anche da parte delle donne straniere che vivono in Italia. Questo fenomeno è fortemente radicato in alcuni contesti sociali connotati da particolare arretratezza. Alcuni reati possono essere considerati come comportamenti “normali” nelle consuetudini di determinati paesi, per cui si parla di “reati culturalmente motivati” nel contesto socio-culturale in cui questa si verifica. È perciò molto importante che anche le donne straniere accrescano la consapevolezza di quelli che sono i loro diritti, liberandosi dai condizionamenti del loro gruppo di appartenenza.
Si pone l’accento sulla frequenza dei femminicidi. Quello che si fa è sufficiente?
Purtroppo le statistiche ci parlano di un numero impressionante di femminicidi. Anche se a me non piace molto usare questo termine, perché dal punto di vista giuridico nel nostro ordinamento non c’è il reato di femminicidio. La norma di riferimento è sempre quella dell’omicidio, che non distingue a seconda del genere della vittima. Sono previste invece delle aggravanti molto incisive, che arrivano fino alla pena dell’ergastolo, se il fatto è commesso a seguito di stalking o se la vittima è legata all’omicida da una precedente relazione affettiva. Non occorre quindi introdurre una fattispecie ad hoc nel caso di uccisione di una donna, quanto piuttosto applicare in maniera efficace gli strumenti normativi che già sono previsti nel nostro ordinamento.
Oltre alle attività di sensibilizzazione, come quella fatta dai media, crede che servano strumenti diversi?
L’educazione deve partire dalle famiglie e dalle scuole. Indubbiamente anche la comunicazione dei media gioca un ruolo delicato dal punto di vista socio-culturale, perché spesso è ancora intrisa di stereotipi di genere che ormai dovrebbero essere abbandonati. Noi pensiamo che il problema sia solo quello di educare gli uomini ai valori del rispetto e della parità, ma devono essere educate anche le donne a prendere sempre più consapevolezza di quelli che sono i propri diritti.
Devono sentirsi sempre più libere di poter denunciare, di poter essere autonome e di pensare che possano farcela da sole anche senza un uomo a fianco. E per questo è molto importante che si incentivino politiche volte a favorire una sempre maggiore autonomia delle donne, lavorativa ed economica. Io sono molto fiduciosa nelle nuove generazioni, perché penso che comunque ci stiamo avviando verso un cambiamento culturale significativo. Anche se la violenza sulle donne, soprattutto domestica, è molto aumentata nella pandemia, per la costrizione in casa, per i limitati contatti con l’esterno, spesso lasciate in balia del loro carnefice.
Come si configura il reato di stalking? Cosa prevede la nostra legislazione?
Il reato di stalking è stato inserito nel 2009, perché nel nostro ordinamento effettivamente c’era un vuoto normativo. Vi erano altri reati – lesioni, percosse, minacce – che però non davano conto di quello che è il contenuto offensivo dello stalking e il suo carattere abituale. Proprio perché reiterate producono determinati effetti sulla vittima.
Anche una condotta apparentemente lecita come mandare un messaggio può integrare uno stalking, quando?
Quando è una condotta reiterata, ossessiva che si innesca in una dinamica malata e che produce un turbamento sulla persona offesa. Si innescano i timori per la propria incolumità, un’ansia perdurante che possono indurre anche a modificare le abitudini di vita. Lo stalking tra l’altro è una sorta di reato sentinella, perché come abbiamo visto purtroppo può degenerare nell’uccisione della donna e quindi deve essere intercettato e arginato prima possibile.
Invece si è parlato molto di catcalling. In cosa si differenzia dallo stalking?
Il catcalling è un apprezzamento volgare che rappresenta sicuramente una spia del fatto che viviamo in un contesto culturale in molti casi ancora fortemente sessista. In questo caso per alcuni uomini può essere normale fare degli apprezzamenti sessuali espliciti, anzi lo considerano quasi un complimento del quale la donna, secondo la loro valutazione, dovrebbe essere addirittura lusingata. Il catcalling può integrare, nei casi di maggiore insistenza, una molestia penalmente rilevante e quindi essere punito a titolo di contravvenzione. Un trattamento sanzionatorio molto più blando perché si ricollega a condotte che, per quanto riprovevoli, presentano un minor significato offensivo.
Crede che servano altri interventi normativi? Nuovi reati, pene più severe?
Il fenomeno della violenza contro le donne non può essere affrontato solo con gli strumenti della repressione. L’intervento penale è senz’altro importante. In molti casi alzare le pene, prevedere nuove figure di reato o nuove circostanze aggravanti non produce gli effetti sperati in termini di deterrenza. Spesso sono connesse a dinamiche passionali, relazioni malate, disagi gravi dal punto vista emotivo. Per questo è irrealistico pensare che uno stalker possa essere disincentivato nella sua condotta dal sapere che la pena del reato è stata elevata.
Bisogna allora necessariamente impiegare anche strumenti diversi: Accanto a formazione ed educazione, servono percorsi di recupero e di rieducazione per gli uomini maltrattanti, per prevenire la recidiva e per favorire l’adozione di comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali. Non dobbiamo quindi cadere nella semplificazione per cui basta inserire un nuovo reato per risolvere il problema. Rischiamo altrimenti di non fare una buona politica criminale e di non cogliere la realtà del fenomeno che dobbiamo contrastare.
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