Da sinistra, in una foto d'epoca, i magistrati Antonio Di Petro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli
Sono passati trent’anni esatti dal quel 17 febbraio del 1992, il giorno in cui ebbe origine l’inchiesta della procura di Milano, denominata Mani Pulite, sulla cosiddetta Tangentopoli. Fra i protagonisti sul versante della magistratura inquirente, i PM Antonio Di Pietro, che ne divenne il simbolo e quasi un eroe popolare, Pier Camillo Davigo, Gherardo Colombo, oltre al Procuratore Capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli e al procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio.
Tangentopoli determinò il crollo della prima Repubblica. E, indirettamente, contribuì all’istaurazione della seconda, caratterizzata dall’avvento al potere di Silvio Berlusconi da una parte e Romano Prodi dall’altra. E quindi dal bipolarismo Centrodestra-Centrosinistra, anche grazie a nuove leggi elettorali in senso maggioritario e non più proporzionale come fino agli Anni Ottanta.
Tangentopoli era l’appellativo giornalistico che scaturì dai primi risultati dell’inchiesta Mani Pulite. Una definizione del sistema di corruzione e concussione fra partiti politici, funzionari pubblici e imprenditori che aveva come scopo l’aggiudicazione di appalti truccati nei lavori pubblici, favori e fondi neri tramite tangenti. Le cosiddette “dazioni” di denaro che, sottobanco, molti imprenditori effettuavano nelle mani di dirigenti politici compiacenti, o che gliele chiedevano espressamente, come ‘prezzo’ per assicurarsi favori degli uomini di fiducia dei capi dei partiti nella pubblica amministrazione. Le tangenti erano lo strumento per il finanziamento illegale dei partiti politici e l’arricchimento personale di non pochi dirigenti, emissari, faccendieri e intermediari.
Quel giorno, il 17 febbraio del ’92, fu il momento in cui Mario Chiesa, esponente del Partito Socialista milanese, e presidente del Pio Albergo Trivulzio, finì agli arresti mentre incassava una tangente di 7 milioni di lire per un appalto. Da quella fase in poi, per alcuni anni, l’inchiesta Mani Pulite fece registrare circa 5mila indagati solo a Milano. Si era scoperchiato un ‘sistema‘ cittadino e poi nazionale, ampio e generalizzato, che faceva perno sulla corruzione: ‘tangentopoli’ appunto. I condannati in via definitiva furono circa 1.200, ai quali si aggiungono 448 sentenze di estinzione del reato per prescrizione, morte dell’imputato, amnistia. Gli imputati o indagati che si sono suicidati, fra uomini politici e imprenditori, furono 41 secondo alcune fonti, 31 secondo altre. Fra essi – almeno in via ufficiale – il capo del Gruppo Ferruzzi e di Montedison, Raul Gardini, e il presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari.
I partiti politici storici furono spazzati via dall’inchiesta Mani Pulite. Caddero politicamente, giudiziariamente e mediaticamente – con le riprese dei processi in diretta Tv – Arnaldo Forlani, segretario della Democrazia Cristiana e Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista. Così come i capi del Partito Repubblicano, del Partito Liberale e del Partito Socialdemocratico. Praticamente tutti i maggiori partiti. Tranne il Partito comunista italiano (Pci), che però già un anno prima si era trasformato in Pds in seguito alla caduta del Muro di Berlino e alla fine dell’Unione Sovietica. Ma anche per la svolta impressa dal segretario Achille Occhetto con il cambio del nome e l’abbandono dell’aggettivo comunista, nella cosiddetta svolta della Bolognina.
La fiammata iniziale di Mani Pulite durò poco più di due anni ed ebbe una grande favore popolare. Gli strascichi durarono un decennio almeno. Molti altri elementi sono stati studiati, come il ricorso abnorme alla custodia cautelare. Ma anche l’elevato numero di condanne di lieve entità – sotto i due anni di reclusione, cioè con pena sospesa – prodotto da inchieste che ebbero, di contro, grande clamore mediatico. Ed effetti immediati dirompenti sulle vite delle persone e delle realtà coinvolte.
E oggi, a trent’anni di distanza da Mani Pulite? “La corruzione non è più un modo per finanziare quasi sistematicamente la politica” afferma Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC). “Ma esiste, è più nascosta, e quindi più pericolosa soprattutto in questa fase di grandi investimenti pubblici per il PNRR” sottolinea. “ll Paese è cambiato, e anche le mazzette. Servono strumenti nuovi, controlli preventivi, e una cultura della legalità” avverte ancora Busia.
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