A poco più di due anni dalla diffusione del Covid-19, e nel momento in cui l’Italia diminuisce le restrizioni a partire dal mese di aprile, Silvio Garattini fa il punto della situazione in un’intervista esclusiva a VelvetMAG.
Scienziato e farmacologo di fama internazionale, fondatore e presidente dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, il professor Garattini, classe 1928, è fra le voci più rispettate, anche se forse troppo poco ascoltate, della medicina italiana. Domani 1° aprile le misure anti Covid verranno seriamente alleggerite, compresa la sua misura simbolo: il Super Green Pass.
Intervista esclusiva del prof. Silvio Garattini a VelvetMAG
Da domani il Super Green Pass non sarà più indispensabile a fine quarantena per chi è stato in contatto con un positivo. Cosa ne pensa?
Bisogna stare attenti. Non si deve diffondere la falsa idea che tutto sia finito. Ancora oggi, stando ai dati del bollentino Covid del 29 marzo, abbiamo quasi 100mila nuovi contagi di Sars-CoV-2 in 24 ore e 177 morti. Sono numeri non soddisfacenti rispetto all’evolvere della pandemia, non si può abbassare la guardia.
La mascherina, simbolo della lotta al Covid ma anche della privazione delle libertà per scelte politiche, serve ancora così tanto?
Personalmente continuo a tenerla anche all’aperto e, soprattutto, quando ci sono assembramenti. Spesso, ormai, molte persone non la mettono più quando si trovano in aree affollate, ma invece è indispensabile. Diminuire i contagi e dunque i casi di Covid è importante. Occorre ridurre la trasmissione del Sars-CoV-2, anche perché altrimenti si svilupperanno nuove varianti del virus. E non solo in aree del mondo come l’Africa, ma anche da noi. A questo fine, poi, occorre diffondere in tutto il mondo adeguate campagne di vaccinazione verso tutta la popolazione della Terra. Tornando ai nostri comportamenti, essere prudenti è sempre meglio. L’esperienza di questi anni ci dimostra che l’uso della mascherina ha evitato l’influenza e varie infezioni polmonari.
Il Servizio Sanitario Nazionale per lei è un tesoro da salvaguardare. Qual è il suo stato di salute dopo due anni di Covid?
Il Covid ha polarizzato tutto. Ne hanno subito le conseguenze gli altri pazienti, afflitti da patologie differenti. Adesso occorre riprendere il cammino, ci sono molte cose da fare. Mancano medici, ad esempio. Se vent’anni fa c’erano un milione di 18enni in Italia, oggi ce sono la metà. Esiste, quindi, anche un problema di base: la carenza di giovani che possano scegliere la professione medica. Dobbiamo potenziare le Università, ma non basta aprire il numero chiuso delle iscrizioni. Bisogna fare di più.
Cosa ha migliorato il Covid negli ospedali italiani e nella medicina in generale?
In questi anni poco o nulla. Non abbiamo neppure un nuovo piano anti pandemico contro il Covid o altre pandemie. Ma oltre al fatto che manca personale sanitario, bisogna sviluppare la medicina del territorio: una realtà che non si può improvvisare. Si fanno tante inaugurazioni, tanti tagli di nastri. Inaugurazioni del nulla. Serve una medicina di comunità. E poi serve rispondere alle domande dei cittadini. Che chiedono ambulatori aperti, in modo da non doversi recare ai Pronto Soccorso degli ospedali. Occorre che più medici si uniscano per gestire ambulatori in grado di rispondere alle esigenze dei pazienti, dove possano trovare spazio anche infermieri e psicoterapeuti.
Perché dobbiamo ancora far fronte al problema delle liste d’attesa?
Al di là del Covid bisogna puntare sulla medicina a domicilio e invece abbiamo ancora le liste d’attesa. Se si usufruisce delle visite intramoenia, a pagamento, allora questo problema supera. Ma l’intramoenia è una grande discriminazione. Stiamo andando verso una sanità dove chi ha i soldi può curarsi, gli altri no. Come avveniva con la mutua, prima del Servizio Sanitario Nazionale.
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