Questo è senza dubbio l’anno di Alessio Praticò. In attesa dell’imminente arrivo di Blocco 181, prima in-house italiana di Sky, numerosi altri progetti lo hanno tenuto impegnato sul set, tra cui l’attesissima quarta stagione di Boris e Il mio nome è Vendetta.
Di formazione teatrale, presso uno dei teatri più prestigiosi d’Italia, ovvero lo Stabile di Genova, Alessio Praticò vanta un gran numero di interpretazioni in alcune delle produzioni italiane di maggior successo degli ultimi anni. Nel 2019 è nel cast de Il traditore di Marco Bellocchio, selezionato per rappresentare l’Italia ai Premi Oscar 2020. Lo abbiamo visto anche nell’acclamata serie di Rai2 Il Cacciatore e, a breve, tornerà sul piccolo schermo con l’attesissima Blocco 181. Se c’è dunque una qualità che possa descriverlo appieno quella è senza dubbio la versatilità, che gli permette di destreggiarsi con grande capacità tra cinema, teatro e tv. Perché, come lui stesso ci ha confessato: “Non esiste ‘l’attore di cinema’ e ‘l’attore di teatro’. Esiste l’attore che sa dividersi con professionalità tra i vari mezzi.” E, in questo colloquio in esclusiva per VelvetMAG ci ha rivelato molto altro.
Intervista esclusiva ad Alessio Praticò
Partirei proprio da Blocco 181, la nuova serie Sky Original che partirà a maggio e ti vedrà nel ruolo di Rizzo, il boss del quartiere: cosa dovremo aspettarci da lui?
Rizzo è un personaggio abbastanza emblematico. Io l’ho sempre visto come una sorta di sindaco ufficioso del Blocco, una persona che è nata e cresciuta in quei luoghi e che conosce bene come le sue tasche. A differenza dei suoi coetanei, decide di continuare a vivere in quei luoghi e di creare una famiglia, però proteggendoli. Il problema è che lui ha molte responsabilità, molte cose da dover gestire e soprattutto si trova in un momento, in cui accade una cosa che non posso dire (ride) e deve dimostrare agli altri, ma soprattutto a se stesso, di essere capace di gestirla.
È un personaggio che si porta dietro – prosegue Alessio Praticò – come lo sono gli esseri umani, tantissime sfumature: lo vediamo in una linea narrativa nella quale si vedono tanti lati. Per come ho sempre visto Blocco – che si può legare a Calcinculo – sono molto shakespeariani questi personaggi. L’idea è quella di creare una “favola nera” nella quale ognuno deve dimostrare di essere capace di portare avanti i propri obiettivi.
Cosa aspettarsi da Rizzo
Hai descritto Rizzo come un personaggio sfaccettato e hai usato il termine “responsabilità”: mi verrebbe da chiederti come ti sei preparato per il ruolo di Rizzo, per questo personaggio “shakespeariano”?
Ho preso un po’ spunto dal personaggio di Antonio Barracano de Il sindaco del Rione Sanità (di Eduardo De Filippo, n.d.r.). Un personaggio che si prodiga per gli altri nella gestione di tutto, anche nelle attività illecite. Rispetto a ciò, come accade nel nostro lavoro, c’è fortunatamente una sceneggiatura che dà la guida della narrazione di tutta la storia. In questo senso, si fanno delle proposte agli sceneggiatori e ai registi per portare avanti la narrazione, per dare un movimento interno alla linea del personaggio. Accadono veramente tante cose in Blocco 181 (ride, n.d.r.) e quindi i personaggi sono sempre lì a dover risolvere qualcosa per cui il pubblico dice: “no, ma come è possibile”.
Da Blocco 181 all’approdo su Netflix con Il mio nome è Vendetta
Per ritornare al rapporto tra Blocco 181 e Calcinculo, essendo descritti entrambi come “favole nere iperrealistiche”, ti andrebbe di aggiungere qualcosa in merito ai punti di incontro e magari sulla differenza nel prepararti sul ruolo di Mario?
Allora, per il ruolo di Mario sono stato proprio chiamato. Devo dire che è uno dei personaggi più difficili con i quali mi sono confrontato: in poco tempo deve raccontare un mondo. Credo che il collegamento tra le due cose sia una ricerca di se stessi, un viaggio, un voler cercare di andare oltre e di migliorarsi. Spesso questo comporta delle prove da affrontare e l’incontro di personaggi particolari, come Mario per esempio. Se ci pensi, è un po’ il racconto della vita – prosegue Alessio Praticò – noi non sappiamo quello che ci accadrà. Per questo è un racconto quasi da “favola” di quella che è l’esperienza dell’essere umano.
Cambiando discorso, diciamo che questo è un po’ anche il tuo anno, perché ti vedremo a breve nel film Netflix Il mio nome è Vendetta, nel ruolo dell’antagonista di Alessandro Gassmann: cosa dovremo aspettarci? Qual è la peculiarità del tuo personaggio?
Allora, questo è un film molto action. Michele Lobianco si porta dietro un rapporto particolare con quello che è il mondo familiare, in questo caso il padre. Rappresenta la categoria dei “colletti bianchi”, lui è un imprenditore e la sua unica volontà è quella di gestire le aziende di famiglia. Vuole essere lontano dal mondo della criminalità, perché non vuole che quel mondo lì possa scombinare i piani della vita che vuole portare avanti. Anche lì c’è un grande conflitto che rimescola tutte le carte e i personaggi si trovano immischiati in cose più grandi di loro. Il tutto però inserito in un action movie, per cui ci saranno tante scene d’azione, che è stato anche divertente girare.
Alessio Praticò si sbilancia su Boris: “Ne vedrete delle belle!“
Facendo riferimento a diverse interviste che hai rilasciato tempo fa, hai ammesso che ti sarebbe piaciuto intraprendere ruoli più “leggeri”. E, in effetti, ti vedremo nel cast della quarta stagione di Boris – La fuori serie italiana: cosa ha significato per te entrare nell’universo dissacrante di René Ferretti?
Allora, per me è stata una cosa straordinaria, essendo io un fan di Boris e usando, come la maggior parte dei fan, quelle espressioni tipiche che sono nate con la serie. È stata una cosa incredibile trovarmi sul set e aver condiviso con tutti gli attori questa esperienza. Io lo so che tu vuoi sapere delle cose, però qua non posso dire veramente niente! (ride, n.d.r.). Posso dirti che mi sono divertito tantissimo e io sono uno dei nuovi personaggi della quarta stagione. Siamo stati accolti alla grande dai personaggi storici. Si è creato un bellissimo gruppo: ricordo il primo incontro, la prima lettura che abbiamo fatto. Mi sono ritrovato Francesco Pannofino davanti, René Ferretti, e i suoi vari “ottimo, dai dai dai!”. Per scherzare, amici e colleghi hanno detto: “Adesso che hai fatto Boris puoi anche smettere!” Insomma, ne vedrete delle belle!
Su Il generale Dalla Chiesa con Sergio Castellitto
Cambiando discorso, sei stato impegnato di recente anche nelle riprese della serie per Rai1 Il generale Dalla Chiesa, al fianco di Sergio Castellitto, raccontando una delle pagine più buie del nostro Paese, quella della Strage di Via Carini: come è stata l’esperienza sul set e come ti sei preparato? Magari qualche aneddoto sul set?
Allora è una serie molto bella perché racconta la figura del generale Dalla Chiesa, concentrandosi sul periodo in cui lavora con nuclei antiterroristici e costruisce la squadra. Anche lì è stato un lavoro molto bello e si è creato un bellissimo gruppo con i miei colleghi e anche con Sergio (Castellitto, n.d.r.), che si è mostrato il grande attore che è e, perché no, anche maestro maestro. Ricordo che un giorno stavamo girando e ci disse una cosa che fortunatamente ho sempre pensato e di cui ho avuto la conferma: noi attori siamo come una penna che deve scrivere la storia attraverso i nostri personaggi.
E poi, chiaramente, raccontando un periodo storico vieni proiettato in quel mondo lì, che non hai vissuto o ha visto attraverso documentari, le foto. È sempre bello, una delle tante possibilità del nostro lavoro è quella di proiettarci virtualmente in un’epoca storica. Non è sempre facile riuscire a raccontare, perché spesso c’è questa parte che rimanda all’istinto dell’attore.
Il cinema ha una responsabilità “sociale”?
Il Generale Dalla Chiesa si iscrive in quel percorso iniziato con Lea, Lo Spietato, Il traditore fino a Il cacciatore, accomunati da uno stesso fil rouge, ovvero la denuncia e la lotta alla criminalità organizzata. Si può dire che vivi la recitazione come una sorta di “responsabilità”?
È comunque una responsabilità perché noi dobbiamo raccontare storie. Spesso sono storie accadute e hai la possibilità di farle conoscere. Ma in generale, sì: sono sempre convinto che il teatro e il cinema rappresentino uno specchio in cui ti vedi, ti osservi e hai un’analisi di quello che è l’essere umano, o almeno io ci spero sempre. Poi è chiaro che abbiamo anche l’intrattenimento. Io penso che sia molto bello che un film abbia quell’accezione sociale e che stimoli lo spettatore in questo senso. Però a questo aggiungo anche, mi sento di dire, che non possiamo demandare al cinema e alla televisione questo ruolo.
In parte hai risposto a questa domanda: pensi che il cinema e la tv siano in grado di veicolare questa dimensione “sociale”?
Sì, sono in grado, ma non possono farlo totalmente loro. Secondo me alla base di tutto ci sono l’educazione che si riceve a casa, la famiglia e la scuola; qualcuno che insegni a saper discernere tra ciò che è bene e ciò che è male, per avere anche la capacità di relazionarti con l’audiovisivo. Così, se vedi una cosa, hai la percezione che quello che stai vedendo è reale nella misura in cui è qualcosa di costruito. Si riesce dunque a riflettere perché si riesce a generare un’opinione o una riflessione. Però non penso possano farlo totalmente il cinema e la televisione. Secondo me è importante vedere più cose, perché molto spesso è come se fosse tutto chiuso a compartimenti stagni.
Alessio Praticò pronto a tornare anche a teatro?
È anche dal confronto con la pluralità che ci si forma un’opinione. Andando molto a ritroso, tu “nasci” a teatro e ti diplomi al Teatro Stabile di Genova: ora che le restrizioni si sono allentate, prevedi di ritornare sul palco?
Guarda, ci spero. Mi piacerebbe riprendere l’esperienza del teatro, aldilà delle restrizioni e di quello che ha comportato rispetto a questi due anni di pandemia. La risposta comunque è sì. Chiaramente il teatro ha dei tempi diversi rispetto al cinema. Sai, spesso mi chiedono “cosa ti piace di più, il teatro o il cinema?” Sono due cose belle in maniera diversa: il teatro accade in quel momento, in quell’istante. Anche se ogni giorno vai a replicare la stessa cosa, sarà sempre diversa. Invece il cinema è bello in altro modo e qui c’è anche il pensiero che qualcosa resterà per sempre.
E poi sono sempre stato convinto che non esista “l’attore di cinema” e “l’attore di teatro”. Esiste l’attore che sa dividersi tra i vari mezzi: il palco, la macchina da presa. Sempre per stimolare lo spettatore: la responsabilità, come dico sempre, è di dare il massimo e di fare felici chi dopo una giornata di lavoro sceglie di spendere dei soldi per venire a teatro, portandosi dietro la frustrazione e la stanchezza. E, perché no, magari lasciargli qualcosa, un piccolo seme di riflessione. Stessa cosa per il cinema e la televisione.
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