La forma della Repubblica. Sul tavolo del governo Meloni, come preannunciato in campagna elettorale, archiviata la Legge di Bilancio, che ha chiuso il 2022, arriva il corposo dossier sulle Riforme, che è facile stimare occuperà il centro del dibattito politico fino alla prossima manovra finanziaria dell’autunno.
L’iter e il possibile timing di modifiche all’architettura della nostra Costituzione si è dimostrato anche in passato un azzardo. Sul tavolo la richiesta di una maggiore autonomia differenziata delle Regioni a Statuto ordinario, o la ben più radicale riforma in senso presidenzialista. Quest’ultima rappresenterebbe senza alcun dubbio un cambiamento epocale e storico per il nostro Paese, che sin dall’inizio della Repubblica non ha mai conosciuto altre forme di governo al di fuori di quella attuale.
In realtà il desiderio di cambiamento in senso presidenzialista, per regalare maggiore stabilità e governabilità al sistema politico italiano, era stato avanzato anche da figure politiche della Prima Repubblica, come Bettino Craxi, o nell’elezione del Presidente della Repubblica, Giulio Andreotti. Ma perché questa svolta non si è mai realizzata? Perché i nostri padri fondatori hanno optato per – e blindato – una Repubblica Parlamentare?
I vantaggi del presidenzialismo
La riforma presidenziale prevede l’elezione diretta del Capo del Governo o del Presidente della Repubblica: prevede la centralità di una figura che raccolga e goda di una legittimazione “popolare” rafforzata. Scelto tra i leader delle due coalizioni più importanti, conferendo maggiore stabilità al Paese per il cristallizzarsi di grosse aggregazioni politiche (nelle democrazie più mature due, anche se non si escludono elementi capaci di aggregare consensi anche importanti, come accaduto in America o in Gran Bretagna). La cosiddetta democrazia dell’alternanza, dove appunto due entità politiche principali distinte si alternano nell’esercizio del potere.
La Democrazia Cristiana ha governato il Paese, in coalizioni diverse, per un lunghissimo arco di tempo, denominato Prima Repubblica. Il momento più vicino al bipartitismo, si è ottenuto durante lo scontro politico ventennale che vedeva come principali rivali, la coalizione con leader Berlusconi vs l’aggregazione di centro-sinistra facente capo all’evoluzione del PCI. In quegli anni la riforma presidenzialista sarebbe stata una naturale conseguenza. In realtà nel nostro Paese una tendenza bipartitica c’è sempre stata sin dagli inizi della Repubblica. Dove il paese era profondamente diviso nello scontro tra la DC e il Partito Comunista. Il “difetto storico” consisteva però nel fatto che l’Italia per motivi geopolitici strategici dettati dagli USA, non poteva dare vita a questo duello: il PCI in piena Guerra Fredda “non poteva” governare il Paese.
La Repubblica parlamentare tra paura di un nuovo tiranno e la dicotomia catto-comunista
La nostra Costituzione secondo gli esperti, non ha caso è fortemente garantista: un’impalcatura pensata per evitare un nuovo dittatore, e capace di gestire scontro storico tra PCI e DC. I padri fondatori hanno ideato un sistema dove il potere fosse ben diluito e bilanciato, o forse ancora meglio: controllato. E quale migliore organo di controllo se non il Parlamento? Nel tempo però il Governo, per imporre una propria visione, ha acquisito negli anni delle consuetudini che sono oggi delle storpiature costituzionali.
E’ stato Bettino Craxi, cercando di capitalizzare il suo consenso personale, per primo a tentare di istituzionalizzare il rafforzamento dell’azione di Governo sul Parlamento. Una svolta all’epoca frenata dalla questione comunista: l’assenza nella Prima Repubblica di una sinistra riformista e socialdemocratica come in Francia e Germania, dato che il matrimonio tra PCI e il PSI non c’è mai stato. Questo ha segnato profondamente il nostro Paese perché non ha consentito una naturale democrazia dell’alternanza.
Il mito della governabilità
Le sfide finanziarie e commerciali imposte dal mondo globalizzato alla fine della Guerra Fredda ha visto prevalere la richiesta di una maggiore stabilità politica per potersi imporre nel mondo globalizzato. L’Italia ha necessità di essere più stabile e governabile a fronte di partiti estremamente frammentati, che danno vita a governi instabili perché formati da coalizioni variegate. Con la fine della dicotomia catto-comunista i partiti hanno la possibilità di ragionare e attuare, alla stregua dei nostri padri fondatori, un patto per il bene della Repubblica.