Alice Arcuri ha ricevuto il premio come Miglior attrice non protagonista nel corso dell’evento Premio Kinéo che è tornato anche quest’anno all’81esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia.
Il Premio Kinéo è ideato e diretto da Rosetta Sannelli (presidente dell’Associazione Culturale Kinéo) ed è tornato anche quest’anno alla 81. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, di cui è storico evento collaterale. Sostenuto dalla DGCA del MIC, l’evento, condotto dall’attrice Francesca Valtorta, si è tenuto sabato 31 agosto 2024 alle ore 21.00 nella splendida cornice dell’Hotel Ca’ Sagredo, ormai divenuto, grazie alla sensibilità per l’arte della direttrice Lorenza Lain, la casa del Premio Kinéo. A ricevere il premio come Miglior attrice non protagonista per la sua interpretazione in Holiday, è stata Alice Arcuri.
«Entusiasta! E’ bellissimo! Come quando gli sportivi allo stadio urlano il tuo nome e fanno il tifo per te. E’ una sensazione di questo genere», mi racconta Alice Arcuri vivendo la cornice festivaliana della laguna. Ed è con lei che entro ‘virtualmente’ nel suo percorso professionale. Mi svela le trame del teatro che ha tanto vissuto e che racconta tanto di lei. Un vita che sfiora quella privata, ma sempre raccontata stando sulle note che soltanto Venezia sa rintoccare.
A VelvetMAG, l’intervista esclusiva ad Alice Arcuri
Premio Kinéo come Miglior attrice non protagonista per il ruolo interpretato in Holiday, film di Edoardo Gabbriellini. Come hai vissuto questo ruolo? E cosa potrebbe dare questo film al pubblico?
Sono domande molto belle e complesse. Per il mio personaggio sono stata accompagnata molto da Edoardo (Gabbriellini, n.d.r.) perché abbiamo fatto un lavoro pazzesco sul corpo con Dalia Colli e Daniela Tartari che hanno veramente modificato il mio corpo, nel senso che, avendo fisicamente una figura esile ed essendo anche più giovane dell’età di Betta, ho fatto più o meno sei o sette ore tutte le volte per avere delle protesi che mi concedessero questo enorme lusso di potermi muovere con un corpo che non era il mio. E questo è già un lavoro artigianale estremo ed è un aiuto ad un attore perché ti muovi. Entri ed esci da un corpo che non ti appartiene. E’ una porta d’ingresso al personaggio molto grande.
Betta è un personaggio, come dire, crudele e delicato al tempo stesso. Come lo è tutto il film in realtà. Anche lì, sono stata aiutata molto da Edoardo, poiché parliamo di un personaggio attraente e spingente. Rappresenta – secondo me – veramente l’umanità in sé il mio ruolo, perché è una donna con la quale puoi sentire una certa empatia ma anche un certo disgusto. Rappresenta la meraviglia che potremmo essere, ma anche l’orrore che siamo.
E’ un film che va visto perché mi ricordo di quando parlavamo di lui (Holiday, n.d.r.) e dicevamo: “La cosa sconvolgente di questa sceneggiatura è che apparentemente sembra tutto normale. Sembra tutto sotto ad una coltre di normalità quotidiana casalinga. E’ come dire ‘l’orrore si nasconde dentro ognuno di noi. Bisogna guardarlo in faccia’“. Quello che secondo me inneggia questo film è la capacità – o comunque – il dover imparare a comunicare tra di noi. A dover cercare di esprimere i propri disagi. Non è solo una tematica attuale, ma epica e in più, si snocciola all’interno dell’ambiente familiare che è da sempre l’ambiente matrice di ogni malessere e delizia della nostra vita.
Da buona genovese Alice, cosa ti è rimasto dentro della tua città? E Cosa ti porti dietro?
La mia città è Itaca. Nel senso che è una città della quale mi sono allontanata e continuo ad allontanarmi per il lavoro che faccio. Ma non la abbandonerei mai perché non ho la possibilità di vivere senza vedere il mare. Per me è una necessità primordiale. Ho bisogno di questo punto di fuga che è diverso dalle montagne, per riuscire a entrare in contatto con la natura che per me è un elemento fondamentale della mia vita. Vivo in una visione panteistica. Sono nata selvaggia e ho bisogno di vedere queste cartoline davanti ai miei occhi. E’ una città che non a caso, ha dato vita ai più grandi cantautori e comici italiani, perciò, ricca di contrasti. E poi, siamo delle persone davvero particolari.
Per me la famiglia è fondamentale. Sono divorziata, però ho un rapporto splendido col mio ex marito e con mio figlio. Per me la famiglia è un clan, un team. Ho costruito una rete di amicizie solide nella mia vita che sono le mie fondamenta. Perciò, qualsiasi cosa brutta della vita mi dovesse mai succedere, non potrei mai averne paura, perché so che se dovessi cadere, ci sarebbero delle persone pronte o ad alzarmi, o a sdraiarsi insieme a me per terra.
Medicina e scherma agonistica prima. Cosa ti ha portato verso la strada della Settima Arte?
Io in realtà ho sempre voluto fare il medico, il cardiochirurgo perché per me il cuore, è l’unico muscolo che a differenza degli altri organi mi ha esaltata da sempre. Sono vissuta in generazioni di medici, ma non ho mai iniziato a studiare medicina. Ho tirato poi di scherma agonistica da quando avevo sette anni circa a quando avevo 12,13 anni, periodo in cui mi hanno diagnosticato una rarissima displasia dell’anca e per questo, ho dovuto smettere di tirare di schema. Ho provato poi col nuoto agonistico, ma ad un certo punto hanno dovuto ‘fermare tutta la giostra’ perché avevano capito che avevo un problema molto serio e son dovuta andare negli Stati Uniti a farmi curare, poiché in Italia non avevano capito bene che cosa avessi.
In quel frangente, mia madre che è una donna davvero incredibile, mi costrinse a fare un corso di teatro. Controvoglia, iniziai a farlo. Però, quando ci fu il saggio di fine anno, ho sentito una specie di epifania. Sono stata presa da un daimon e ho scoperto questo linguaggio che mi permetteva di entrare in contatto con una parte profondissima, abissale di me. E attraverso quello, è come se si fosse creata una voragine di gioia. Credo che sia un lavoro da grandi privilegiati che ti permette di fare continuamente analisi su tutto, su te stesso. Ma rimane anche una delle cose più divertenti che esistano nella mia esistenza. Io mi diverto, tantissimo! E quello per me è un po’ la cartina di tornasole se sto facendo un buon lavoro, oppure no.
Alice Arcuri: «Da qualche parte qualcuno mi ha ‘buttato un gran cinque’, perché, se chiudo gli occhi, sono a Venezia»
Poi, in breve tempo, sei diventata la prima attrice del Teatro Stabile di Genova. Un ruolo che è stato ricoperto da Mariangela Melato.
Sono entrata in teatro facendo ruoli da attrici giovani. Poi ci fu un anno in cui un’attrice che doveva interpretare un ruolo da protagonista ne L’agente segreto” di J.Conrad, decise all’ultimo di fare una serie Tv molto importante con un grosso ruolo. Venni – quindi – presa io ‘a chilometro zero’ come dire, quasi a fare un ruolo da protagonista, un ruolo quella di Winnie, incredibile, perché erano due ore e quaranta di presenza scenica circondata solo da uomini.
Da lì in poi credo di essermi guadagnata la possibilità di continuare ad avere la responsabilità di sostenere dei ruoli protagonisti. E’ stato un grande regalo che mi è stato fatto perché ho imparato il mestiere così giovane. Ho 40 anni e ho 20 anni di contributi e ho sempre fatto ruoli molto grandi. Il rovescio della medaglia di tutto questo è stato che, probabilmente, mentre la maggior parte dei miei coetanei stava ancora facendo l’università, io ero già entrata in una modalità artigianale molto, molto nipponica.
Quell’esecuzione perfetta sperando che non arrivi mai
Rigore, puntualità e un totale esserci nella scelta. E’ tutto quello che mi porta Alice a vedere nel corso della nostra intervista che, come dicevo è un percorso fatto di domanda e risposta ma che mi accompagna ad approfondire una scelta che ha vissuto intensamente e per tanto tempo. Un percorso che ha deciso – la stessa attrice – quando chiudere le sue porte. «Ti richiede dei grossi sacrifici, soprattutto se lo fai come ho fatto io cercando sempre l’esecuzione perfetta e sperando che non arrivi mai. Devo dire che poi, dopo molti anni, nel 2021 è mancato il mio maestro Marco Sciaccaluga e lì c’è stata una grande cesoia. Non c’è niente di peggio che tornare nei posti dove sei stata molto felice, perciò, il teatro per me è rappresentato un luogo dal quale mi dovevo assolutamente allontanare perché quasi tutta la mia carriera, l’ho fatta con lui.
E poi ho un bambino che adesso ha 10 anni, quindi dopo lunghi, lunghi anni di tournee in cui mi ha seguita in tutta Italia, quando ha iniziato a fare la scuola sai, purtroppo sono una madre gorilla e soffro moltissimo la distanza da mio figlio e quindi, ad un certo punto, nel 2021, ho chiuso le porte del teatro e ho detto: “Adesso basta! Credo di dover approcciare un altro linguaggio, ovvero quello della televisione e del cinema”. E devo dire che da qualche parte qualcuno mi ha battuto un gran cinque perché, se chiudo gli occhi, sono a Venezia. Merito probabilmente, dello studio che ho fatto».
Mi porti a chiederti se il teatro non sia un mondo maschilista.
Senza toccare temi politici, intendo veramente attuali, sì, è un mondo assolutamente maschilista. Devi pensare innanzitutto che il teatro è voce e corpo. Io sono anche molto gracile. Sono piccolina e non una valchiria, quindi ho una voce molto sviluppata ma rimarrà comunque sette ottavi più alta di quella di un uomo. I ruoli per le donne sono un sesto. Il teatro è sempre stato scritto dagli uomini e le donne hanno iniziato a recitare molto, molto tardi, nell’Ottocento, Novecento. Non c’è mai stata anticamente una scrittrice donna, quindi, l’universo femminile è sempre stato raccontato dagli uomini.
Questo non vuol dire che non ci siano ruoli femminili incredibili, perché ci sono, però, ovviamente, sono sempre pochissimi. Infatti, molte attrici di grande esperienza come Mariangela (Melato, n.d.r.) è stata capace di interpretare anche ruoli maschili. Quindi direi di sì, è un ambiente molto piramidale, nel quale devi guadagnarti la stima dei tuoi colleghi sul campo. Non esistono vie di fuga, raccomandazioni o terze vie perché il palco è come essere su una nave dei pirati. E’ una grande scuola.
La popolarità arriva poi con Doc-Nelle tue mani con un personaggio che entra nelle dinamiche della storia che aveva già alle spalle una prima stagione, a gamba tesa. E’ vero che non hai voluto vedere la prima stagione? Quale è stato il motivo?
Un motivo è molto semplice, ma viene dalla mia esperienza. Non volevo avere nessun tipo di giudizio di nessun genere sui miei colleghi. Volevo arrivare ‘tabula rasa’ perché per me è fondamentale, non tanto il pregiudizio o il giudizio sull’attore in sé, ma sulla persona. Quando reciti con un altro essere umano si crea una connessione davvero profonda se si gioca in due al gioco, che è davvero quello della trasparenza. Non volevo avere nessun retropensiero su nessuno.
E il secondo motivo, è stato che il mio personaggio arrivava a gamba tesa come un deus ex machina senza conoscere nessuno e quindi ho deciso di fare questo percorso insieme a lei. Poi, devo dirti che ho guardato i primi dieci minuti solo per capire in che modo era stato girato. E ho notato subito che era una serie bomba. Nel tempo poi l’ho guardata, ma solo dopo aver finito di girare.