Benigni, un “maledetto toscano” che a Berlinguer di bene gliene vuole ancora
Quel suo graffio irriverente proprio della Toscana povera e profonda dei contadini come il Cioni che conquistano il Leone d'Oro ventidue anni dopo l'Oscar
Ventidue anni più tardi è ancora lui. La vita è bella per Roberto Benigni che, come ufficializzato fin dalla primavera, riceverà oggi il Leone d’Oro alla carriera alla 78ª Mostra del Cinema di Venezia dopo quel mitico Oscar del 1999 per Life Is Beautiful. In quell’occasione il trionfo fu assoluto e, al tempo stesso, divisivo. Qualcosa che poteva riuscire solo a un maledetto toscano come lui. Trattare con ironica e profonda leggerezza il tema della Shoah facendo commuovere e pensare molti, ma anche arrabbiare altri per l’apparente sacrilegio di un argomento così tragico, non è da tutti.
Benigni: “Il mio cuore è profugo“
Robertaccio è tornato a parlarne ricevendo il Premio Città di Viareggio. Ha detto di aver raccontato “la Shoah con ironia perché quella era finzione mediata dall’arte, l’arte cambia sempre il soggetto che racconta. Mentre invece le immagini che arrivano dall’Afghanistan sono ora tragica realtà, è fiamma che brucia, che non può essere ancora trattata con ironia“. Benigni ha ripreso le parole della scrittrice Edith Bruck secondo la quale “viviamo in un mondo di profughi“. “Ha ragione – ha detto il regista e attore – e il mio cuore è profugo a vedere le immagini di madri che gettano i bambini oltre il filo spinato. Quelle sono tutte le facce di Cristo, non possiamo che aiutare quelle persone. Non c’è altro da fare“.
Fra Berlinguer e “Wojtilaccio“
Per arrivare a questo Benigni, che compirà 69 anni il prossimo 27 ottobre, è partito da molto lontano. E in particolare, giovanissimo, dal suo primo maestro d’improvvisazione: Altamante Logli, l’ultimo signore della poesia popolare toscana in ottava rima. Nei primi anni ’70 è musicista e cantante e fa spettacoli in coppia con l’attore Marco Messeri. Fino all’incontro, nel 1975, con Giuseppe Bertolucci. Per lui il grande regista scrive il monologo del Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, contadino toscano dissacrante e comunista fino all’osso. Gli anni ’80 diventano scoppiettanti per un personaggio che piaceva per l’ostentazione dell’irriverenza. È il Benigni che a Sanremo bacia in diretta la conduttrice Olimpia Carlisi e che anni dopo ‘ghermirà’ sul palco Raffaella Carrà; è lo stesso Roberto scapigliato che prende in braccio Enrico Berlinguer; quello che apostrofa con un Wojtilaccio! il Papa che trent’anni più tardi la Chiesa avrebbe proclamato santo.
Benigni, Nicoletta e il salto di qualità
È lo stesso periodo in cui Benigni comincia a lavorare dietro la macchina da presa. Comincia nel 1983 con Tu mi turbi e, l’anno dopo, con Non ci resta che piangere, scritto, diretto e interpretato con Massimo Troisi. Dove recitò anche uno storico amico di Roberto, quell’indimenticato Carlo Monni co-protagonista di Berlinguer ti voglio bene. Arriva poi l’esperienza americana con tre film diretti da Jim Jarmusch: Daunbailò, Coffee and Cigarettes e Taxisti di notte. Dal 1987 lavora poi con Nicoletta Braschi, che diventerà sua moglie, con la quale fonda nel 1991 la Melampo Cinematografica. E arrivano altri film di successo, con alterne fortune: Johnny Stecchino (1991), Il mostro (1994), La vita è bella (1997), Pinocchio (2002) e La tigre e la neve (2005). Come attore nel 1990 è nel film di Federico Fellini, La voce della luna, e nel 2019 nel ruolo di Geppetto, nel Pinocchio di Matteo Garrone.
Venezia, punto d’arrivo di una vita
Il grande salto è compiuto, Roberto Benigni non è più il Cioni, è il Premio Oscar e, oggi vent’anni dopo, Leone d’oro alla carriera. Nel mezzo, la Divina Commedia, ma anche Il Canto degli italiani (l’Inno di Mameli), i Principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana e i Dieci comandamenti biblici. Recitazioni di alto profilo e grande successo di pubblico, tenute anche davanti al Presidente della Repubblica. “Pochi artisti hanno saputo come lui fondere la sua comicità esplosiva, spesso accompagnata da una satira dissacrante, a mirabili doti d’interprete” aveva detto lo scorso aprile il direttore artistico della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera. Per lui, come per moltissimi italiani, l’artista Benigni è ormai anche “avvincente e raffinato esegeta letterario“. E pazienza per il tapiro di Striscia la Notizia. O per le critiche di ambienti fiorentini e toscani nostalgici del “Benigni quello vero“, che voleva bene a Berlinguer (ma gliene vuole sempre) e portava il graffio irriverente della Toscana povera e profonda sui palcoscenici d’Italia. Nessuno è fino in fondo profeta in patria, basta che lo sia nel mondo.
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