È il 1973. Gabriella Ferri è biondissima, indossa con fascino una frangia alla francese e un foulard di piume rosso. All’epoca ha trent’anni. Accanto a lei, Claudio Villa: giacca, cravatta e cappello. Buffi, teatrali e volutamente sguaiati (ma senza mai perdere un pizzico d’eleganza, da veri mestieranti), si esibiscono in un duetto lunghissimo per i tempi televisivi di oggi. Oltre sei minuti di botta e risposta: è lo stornello dei dispetti. “Oddio quanto sei racchia”, canta lui sbizzarrendosi nei vocalizzi, mentre lei balla sull’insulto. “Ma non lo vedi ‘nto sei tappo? Tu’ madre nun ce s’è sprecata troppo”. “Tu canti proprio come ‘na sirena… Me pari ‘n’ambulanza quanno sòna”.
A rileggere oggi le opinioni del pubblico sotto uno dei video in cui Gabriella Ferri e Claudio Villa duellano a suon di stornelli romaneschi, sembra semplicemente un altro mondo da rimpiangere. “Due immensi di un’Italia che non c’è più”, scrivono. “Icone romane”. “Questo è quello che ci unisce anche come italiani: il gioco, le emozioni, la passione. Siamo tutti a ridere con loro”. Ed è tutto vero. Ma non sempre è stato percepito così.
La società dei magnaccioni
C’era un tempo, infatti, in cui la canzone popolare, peggio se romanesca, era considerata una musica da ignoranti. Da “stracciaroli“. Da dove arrivava un preconcetto simile non è difficile da capire: la canzone popolare rappresentava il popolo, letteralmente. Il popolo dei poveri, dei lavoratori, delle famiglie così numerose da doversi spartire cibo e vestiti, secondo la tradizione ben oliata dei figli minori che ereditavano i vestiti dei fratelli maggiori, a prescindere dalla taglia. Era il canto delle osterie, in cui tra i fumi delle sigarette e le guance arrossate dal vino, si parlava di donne, di soldi e di satira. “Si l’oste ar vino c’ha messo l’acqua?”. Facile: “Noi je dimo e noi je famo: c’hai messo l’acqua, nun te pagamo”.
A far suo lo spirito più sanguigno della società dei magnaccioni, rielaborandola in modo che, lentamente, dalla nicchia delle osterie la canzone romana diventasse davvero popolare (vale a dire anche di successo), arrivò anche una ‘romana de Roma’ DOC. Gabriella Ferri. Nata e cresciuta a Testaccio e poi adottata dal quartiere San Giovanni, era figlia di papà Vittorio, da sempre un vero fanatico della canzone romana. Gabriella era bella: voleva diventare un’indossatrice. Ma per campare bisognava lavorare, e lei lo sapeva bene: così fece la commessa, poi l’operaia, e lavorò in alcune boutique romane. Mentre si dava da fare per pagare la famosa pigione, incontrò un’altra giovane donna: Luisa. Figlia del regista Gabriele De Santis, è con lei che Gabriella decise di formare un duo chiamato Luisa e Gabriella: un nome semplice e perfetto per partire insieme alla scoperta del folk romano.
Gabriella Ferri, purché sia dialetto
Ma Gabriella era destinata a proseguire con una carriera da solista. In modo naturale si fece largo tra le fila delle grandi voci della canzone popolare (perlopiù maschili) ed iniziò ad affermarsi come un nome forte. Ma inafferrabile. Amica di Patty Pravo con cui divideva le mitiche serate del Piper, cantante ufficiale del Bagaglino nel pieno degli anni Sessanta, in grado di far gola anche ad un’etichetta come la RCA.
Partendo da quel repertorio tradizionale che inevitabilmente aveva fatto suo (con brani come Sinnò me moro, Ciccio Formaggio, Chitarra Romana o La società dei magnaccioni), ma anche con canzoni originali, spesso scritte a quattro mani proprio con il padre Vittorio. E che, tra l’altro, restano tra le più belle del suo repertorio (basti pensare a Se tu ragazzo mio, Te possino dà tante cortellate o Remedios). Gabriella senza rigidismi, a briglie sciolte. Ma con un unica verità che avrebbe difeso dall’inizio alla fine: “Il dialetto è la mia lingua”. E in dialetto scrivo e canto. Così l’angelo biondo di Testaccio diventò la Signora di Roma.
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