Archistar dall’estetica potente, tra i designer visionari più acclamati a livello internazionale, Fabio Novembre ha firmato spazi e oggetti diventati iconici, di grande forza espressiva. Nel suo percorso collabora, tra gli altri, con Cappellini, B&B Italia, Venini, Meritalia e Kartell e dal 2019 è art director di Driade, direttore scientifico di Domus Academy e membro del comitato scientifico del Museo del Design della Triennale di Milano. I suoi lavori sono acclamati in tutto il mondo. Spazia dalla moda, alla ristorazione, agli hotel di lusso, fino a progetti rivoluzionari con uno stile distintivo e versatile, ma che risulta difficile da etichettare. L’irrefrenabile firma del design italiano, di origini pugliesi, ma di animo cosmopolita, si racconta in esclusiva ai lettori di VelvetMAG.

Ph-Livio Mancinelli

Intervista esclusiva a Fabio Novembre

E’ nato a Lecce, nella capitale del Barocco. Per un designer di successo come lei è positivo o meno esprimere l’attaccamento ai propri luoghi d’origine?
Sono andato via da Lecce appena a diciotto anni per studiare a Milano. La lontananza era un dato imposto che mi piaceva leggere come un esilio volontario. Milano era il luogo ideale per sviluppare un sentimento apolide da cittadino del mondo in cui mi sono riconosciuto per molti anni. Ma poi, per quanto cerchi di ignorarlo, ti accorgi che la polvere dei luoghi in cui sei cresciuto è sempre nelle tue scarpe. Attraverso tracce ritrovate nei miei lavori sono tornato a riconoscere quella città di pietra malleabile che si incendia di luce al tramonto uniformando qualsiasi assolo barocco in un ancestrale collettivo richiamo materico.

Ha sempre odiato gli specialismi e le classificazioni, proprio per questo ha espresso la sua arte in maniera trasversale: dalla progettazione dei negozi di moda di lusso, ai locali chic meneghini, agli hotel esclusivi. Al fine di non essere “etichettato” in una particolare categoria ha spaziato il suo orizzonte stilistico. Quanto è difficile non avere confini, non solo in termini lavorativi, ma mentali?

Credo non si possa sfuggire alla propria natura più intima. Sono sempre stato così, non c’è stata nessuna premeditazione. E non si tratta di essere migliori, perché con gli anni ho imparato a rispettare ogni scelta. Ma i recinti di omogeneità hanno sempre portato all’estinzione, la diversità è la chiave evolutiva della nostra specie.

Il suo può essere comunque definito uno stile elegante e pop, pieno di contraddizioni e sfumature. La sua poetica spazia e travalica i confini. C’è una corrente artistica in particolar modo che l’affascina?

Ho sempre letto le cosiddette “correnti artistiche” come fotogrammi di un film che narra la storia degli umani. Quel film è cominciato milioni di anni fa, ne ignoriamo l’epilogo, godiamoci il senso complessivo della storia realizzando che siamo noi stessi gli inconsapevoli attori, qui e adesso.

Tra le sue opere più iconiche c’è la poltrona enigmatica Nemo di Driade, apparsa nella serie tv Lupin. Come prende vita la sua progettazione?

Indossare una maschera significa negare la propria identità, sottrarsi alle convenzioni sociali e riguadagnare la libertà. Nemo è un oggetto da indossare come una nuova identità senza caratterizzazioni sessuali o geografiche. E come la maschera del teatro greco che serviva per amplificare la voce, Nemo trasmette un senso di inclusività e di libera espressione. “Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero”, Oscar Wilde.

Collabora da anni con Kartell. Tra le sue ultime creazioni ci sono Lantern, l’originale lampada a led ricaricabile, il Trullo e il Pumo, elementi iconici della sua Puglia. Come nascono i progetti per questa famosa azienda?

La collaborazione con Kartell si basa su un confronto costruttivo che nel mio caso ha spesso fatto emergere tracce di memoria. Oggetti di piccola scala leggeri come ricordi, trasparenti come pensieri, che lasciano traccia del mio passaggio come lucciole nel buio della sera.

In Muse per Venini nel 2016 omaggia De Chirico, Carrà, Savinio e De Pisis, interpreti della pittura metafisica. Quanto è legato a questo particolare stile?

Nel 1916, per sfuggire all’atroce follia della guerra, un gruppo di ragazzi si fece ricoverare nel centro medico militare di Villa Seminario a Ferrara. Quei ragazzi si chiamavano: Giorgio De Chirico, Carlo Carrà, Alberto Savinio e Filippo De Pisis. Il rifiuto della realtà li portò ad elaborare una realtà alternativa che chiamarono Metafisica. Un mondo fatto di muse e di enigmi, di inquietudini e di incanti. Muse è il mio omaggio e la mia vicinanza a quei ragazzi.

Tra le sue collaborazioni più celebri ci sono anche la progettazione dello showroom Bisazza per Berlino e New York e la Hit Gallery a Hong Kong, ispirata ai dipinti e alle atmosfere surreali di Giorgio De Chirico. Quanto questi progetti l’hanno arricchita a livello umano e in che modo?

Parliamo di progetti di vent’anni fa ed è certo che mi hanno reso l’uomo che sono adesso. L’esperienza è come un bagaglio che si arricchisce con il passare del tempo, ma che rischia di appesantire il senso stesso di quel viaggio che è la nostra vita. Dopo quasi trenta anni da quando ho aperto il mio Studio, oggi mi sento molto più leggero rispetto alle granitiche certezze giovanili. Ho interiorizzato il vecchio adagio socratico e posso coscientemente affermare che “so di non sapere”. Non so bene dove mi porterà questa leggerezza, spero di imparare a volare.

HIT-Gallery_ph-Dennis Lo

Fino al 18 aprile 2022 presso il Mart di Rovereto, in occasione della mostra Canova tra innocenza e peccato, si potranno ammirare due sue opere. Cosa ha scelto di esporre per l’occasione?

Ho sempre lavorato sul tema del corpo e sono affascinato dalle sue infinite interpretazioni. Quando Vittorio Sgarbi ha scelto di esporre due mie opere al Mart di Rovereto non potevo che esserne entusiasta. Si tratta in particolare di due miei lavori direttamente e indirettamente ispirati al grande Maestro: Venus, la libreria disegnata per Driade e LEI, opera unica in marmo di Carrara.

Venus_Driade
Lei_Ph-Livio-Mancinelli

Quali sono a suo avviso le qualità di un architetto di successo?

Successo” per me è soltanto un participio passato. Mi piace pensare che chi si occupa di progetto sia in modi diversi: ecocosciente, sensibile, compassionevole, tollerante, aperto, e che dal progetto di semplici utensili nasca un’idea di vita più adatta al nostro malandato Pianeta e ai meno fortunati che lo abitano. Io credo che i momenti di difficoltà collettivi richiedano prese di coscienza collettive e che ciascuno deve dare il proprio contributo attraverso la specificità del suo lavoro. Il ruolo oracolare del progettista è oggi assolutamente improponibile: siamo circondati di merci inutili e l’accanirsi a disegnarne di nuove è di per sé un cattivo esempio. Il buon esempio deve quasi polemicamente attuarsi nella non azione, o perlomeno nell’assoluta distillazione delle proprie idee. Dico spesso che per essere un buon architetto oggi bisogna “fare meno e farlo meglio”.

Quanto la recente pandemia ha influenzato la progettazione di spazio ed arredi? 

Cerchiamo di analizzare con lucidità gli effetti di questa pandemia. Il più eclatante è la negazione del contatto umano, che è una caratteristica essenziale della vita sociale. Il design e l’architettura si fondano sul principio del contatto, sono l’evoluzione di quel gesto tanto antico quanto naturale che è l’abbraccio. Io leggo questo virus come un avvertimento: o ci sforziamo di sviluppare un grande senso di responsabilità o perderemo quella libertà che tanto amiamo. La distanza sociale non potrà mai essere un principio progettuale. Può essere la risposta a uno stato di emergenza, ma consapevoli che è la negazione di tutto quello che abbiamo sviluppato in millenni di vita comunitaria. La progettazione sarà sempre un processo di coinvolgimento collettivo finalizzato alla convivenza e alla cooperazione.

Casa Milan_Ph-Andrea-Martiradonna

Ha dichiarato una frase molto poetica: “Ho sempre inteso le mie azioni come quelle di un cavaliere che si mette a servizio di una regina, noi abbiamo sempre bisogno di amore, proprio per questo ho sempre progettato spazi per il pubblico, non per il privato, di cui le persone si innamorassero”. Potrebbe spiegarci questa sua scelta?

Il corpo e l’innamoramento hanno sempre ispirato qualsiasi mio ragionamento sul progetto semplicemente perchè sono alla base di quell’esperienza unica che chiamiamo vita. Immersi nel flusso costante dell’evoluzione spesso dimentichiamo la carnalità legata al nostro sentire. Oggi l’evoluzione di tutto il mio lavoro si gioca tra la contemporaneità degli input e la primordialità degli output.

A proposito di amore, lei ha due figlie, che tipo di padre è?  Quali sono i valori principali che cerca di trasmettere loro?

Il mio cognome è Novembre, una parola che evoca freddo, pioggia e cieli grigi. Rispetto a questo dato di partenza, accostare a Novembre i nomi Verde e Celeste potrebbe apparire una contraddizione in termini. Ma è invece l’eredità spirituale che ho voluto insita nel loro nome: figlie mie, non fermatevi mai ad una prima interpretazione delle cose, trovate sempre il punto di vista a voi più congeniale. Novembre può essere Verde e Celeste, basta guardare le stagioni dall’altro emisfero, e non a caso hanno una madre argentina. E poi, oltre ad avere dei nomi che suonano come brevi poesie ermetiche, Verde e Celeste rappresentano la mia terra e il mio cielo, tutta la mia vita si svolge tra i loro confini.

Ci può anticipare qualche progetto futuro?

Negli ultimi anni stiamo seguendo sempre più progetti di architettura. Dopo Casa Milan ad esempio a Miami verrà inaugurata il prossimo anno la nuova torre di Motorsport Network, la più grande media company legata al mondo dei motori. I nuovi spazi incarneranno potenza, dinamismo e sinuosità, un corpo in movimento con la stessa energia di una supercar.

Motorsport Network

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